Il grande quaderno

Il grande quaderno

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Tratto da un bestseller ungherese del 1986, Il grande quaderno è un’opera che getta uno sguardo problematico e originale sull’infanzia e sulla guerra, pur mancando di sufficiente coesione narrativa.

L’abbraccio dell’oscurità

In un’imprecisata città ungherese, martoriata dalla Seconda Guerra Mondiale, una giovane madre decide di affidare i suoi due figli, gemelli, alla nonna che vive in campagna. Intanto il padre, prima di partire per il fronte, lascia loro un quaderno, da usare come diario delle loro giornate. Ma la vecchia donna, violenta e alcolista, deride e maltratta i due ragazzini, che decidono di sopravvivere indurendosi e ignorando il dolore… [sinossi]

Nei cinema italiani, la stagione estiva è tradizionalmente terreno, oltre che dei (pochi) blockbuster programmati appositamente per il periodo, nonché della solita infornata di film di genere (soprattutto horror), anche di alcuni “recuperi” di opere d’autore, a volte passate come meteore nei piccoli festival nostrani. Tra queste, negli attuali, ultimi scampoli della stagione, spicca questo Il grande quaderno, già visto al Giffoni Film Festival 2014, e candidato a rappresentare l’Ungheria per gli Oscar di quell’anno. Il film di János Szász è un’opera che ha avuto un certo rilievo in patria, se non altro per l’illustre modello letterario a cui si ispira: il bestseller omonimo di Ágota Kristóf, prima parte della cosiddetta Trilogia della città di K., che segue le vicende di due gemelli ungheresi durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale. È proprio lo sguardo acuto e originale sulla guerra, e sul suo impatto sull’infanzia, uno dei punti di forza del film di Szàsz: in un periodo di convenzionali celebrazioni di giornate della memoria, di visioni standardizzate e un po’ pacchiane dell’età infantile, di negazione a prescindere del lato oscuro di questo periodo della vita (naturalmente messo in risalto da una tragedia come un conflitto), un’opera del genere va controcorrente. A partire dalla scelta di non dare nemmeno un nome ai due piccoli protagonisti (chiamati, anche nei titoli, semplicemente “l’uno” e “l’altro”): rispetto al recente Corri ragazzo corri, in cui il padre del giovane Srulik gli intimava di non dimenticare mai il suo nome da ebreo, siamo davvero agli antipodi. La guerra spersonalizza, e qui non si cerca in alcun modo di negarlo.

La dimensione ottimista, fiduciosa, intrisa di positività, che altre opere ambientate nel periodo conferiscono alle figure infantili, qui viene deliberatamente rovesciata: i due gemelli abbracciano la logica dell’homo homini lupus, ne divengono parte integrante e la perpetuano, fin da quando capiscono che la violenta e alcolizzata nonna non regalerà loro niente. Inumane prove di resistenza fisica, insulti urlati l’uno contro l’altro, atti di violenza e menomazioni reciproche divengono la norma; con lo scopo di asciugare l’emotività, indurire la scorza e sopravvivere. Il quaderno su cui il padre aveva chiesto ai due ragazzi di annotare la loro vicenda, da memoriale stilato allo scopo di mantenere traccia della propria umanità, diviene l’esatto opposto: freddo resoconto di eventi e orrori, così simile ai registri in cui gli ufficiali nazisti annotavano vittime programmate ed eliminate. Come se L’allievo di kinghiana memoria (ancor più crudele del suo corrispondente filmico col volto di Brad Renfro) si fosse sdoppiato, tornando nel suo luogo e nel suo tempo deputati; la fascinazione del male, qui, è in certa misura imposta, ma viene abbracciata con uguale convinzione. I numeri delle vittime del campo di concentramento vicino si sovrappongono a quelli degli insetti sadicamente infilzati dai due, a scandire il progressivo distacco dall’innocenza, e l’avanzare dell’oscurità: come in una sorta di orrida fiaba animata, le pagine del quaderno danno vita a immagini di guerra stilizzate, in una delle intuizioni visive migliori del film.

Senza il rigore emotivo di un Haneke (autore con cui il film di Szász condivide il direttore della fotografia, Christian Berger) ma ugualmente attento ad asciugare e dare pregnanza alla componente melò, non mancante di notevoli intuizioni registiche (i già citati inserti animati, la lunga sequenza finale), Il grande quaderno soffre tuttavia di un andamento troppo rapsodico, mancante di armonia e coesione narrativa. La sceneggiatura, frutto di un evidente lavoro di scrematura e selezione del materiale di partenza, procede (specie nella prima parte) per singulti: accumulando eventi, introducendo personaggi e poi accantonandoli (vedi la ragazza che i due chiamano Labbro Leporino), risultando a tratti poco chiara. C’è bisogno di impegno, da parte dello spettatore, e della predisposizione a superare una gestione poco felice del racconto, per riuscire ad accostarsi al mondo (malato, ma così umano) dei due gemelli: mondo comunque tenuto alla minima distanza, osservato da una visuale (e questa è una scelta) che lascia guardare l’abisso senza sprofondarvi. Con un occhio in certa misura “clinico”, che non esclude un certo grado di empatia, e che resta anch’esso uno degli elementi più interessanti del film.

Un altro appunto che ci sentiamo di fare, a un’opera comunque problematica e importante, è la mancata emersione di quella dimensione simbiotica che lo script lascia intuire (senza mai approfondirla) tra i due protagonisti: e che non consente di caricare della dovuta intensità la prova più dura da affrontare, per i due ragazzini, ovvero quella della separazione. Tema che avrebbe meritato (data anche la convincente prova dei giovani András e László Gyémánt) ben altra e più pregnante gestione.

Info
Il trailer di Il grande quaderno su Youtube.
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