Tragica alba a Dongo

Tragica alba a Dongo

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Tragica alba a Dongo, il film di Vittorio Crucillà che venne censurato dal potere democristiano per volere di Andreotti e che narra le ultime ore di vita di Benito Mussolini, è stato riscoperto al Torino Film Festival, in una copia restaurata che ne svela definitivamente il valore artistico, oltre che storico.

Mussolini, ultimo atto

La ricostruzione delle ultime ore di Benito Mussolini: dall’arresto a Dongo da parte di una brigata partigiana alla notte passata con Clara Petacci in una casa di contadini, fino all’isolamento e alla successiva fucilazione. [sinossi]

Se la funzione di un festival cinematografico è anche quella di riscoprire passaggi oscuri o dimenticati della storia del cinema, e portare sotto le luci della ribalta figure che nel corso del tempo erano state obliate, per caso o per scelta, l’essenza del Torino Film Festival la si può rintracciare in due momenti chiave: l’omaggio all’opera indomita e anarchica di Augusto Tretti e la proiezione di Tragica alba a Dongo, il film di Vittorio Crucillà rimasto invisibile per sessantacinque anni, se si eccettua una fugace apparizione sotto la Mole Antonelliana, durante la settima edizione di quello che all’epoca ancora si chiamava Cinema Giovani. All’epoca, nell’ottobre del 1988, fu Alberto Farassino a scoprire quest’opera e a inserirla all’interno della retrospettiva Il neorealismo in cinquanta film: Crucillà arrivò a Torino con la bobina sottobraccio, e si potè così svolgere l’anteprima mondiale di Tragica alba a Dongo, a soli trentotto anni dalla sua realizzazione…
Tra il 1949 e il 1950, mentre l’Italia cercava di riemergere dai calcinacci e dalle rovine dei bombardamenti e di venti anni di fascismo, Emilio Maschera e Ugo Zanolla decisero che era necessario produrre un film sugli eventi che portarono alla fucilazione di Benito Mussolini e Claretta Petacci. Maschera e Zanolla erano stati partigiani, e avevano anche fatto parte del PWB, vale a dire il “Psychological Warfare Branch”, organo dell’apparato militare statunitense che si occupava della propaganda sui mezzi di comunicazione durante la lotta di liberazione in Italia. In un’epoca in cui il neorealismo, pur inviso a parte del potere politico, raccoglieva consensi critici (in particolar modo all’estero), i due improvvisati produttori contattarono due giornalisti (il già citato Crucillà ed Ettore Camesasca, storico dell’arte all’epoca delle riprese non ancora trentenne) perché si occupassero della regia e della sceneggiatura. Crucillà, inoltre, avrebbe dovuto incidere la voce narrante.

Proprio dalla voce narrante è possibile partire per cercare di scavare nel mistero di Tragica alba a Dongo: nonostante quel che si lesse all’epoca della prima proiezione torinese, e che è stato ribadito anche da Alberto Barbera in occasione della nuova presentazione al pubblico durante le giornate della trentatreesima edizione del Torino Film Festival, il film non deve essere visto, letto e giudicato solo nella sua funzione storica, reperto del passato che ha superato un ostracismo decennale. Si tratterebbe infatti di un errore grave, e di un’ingiustizia ulteriore per un’opera che ne ha già subite in abbondanza. Tragica alba a Dongo non è un oggetto curioso, e la sua importanza non si limita a un semplice lavoro di catalogazione: il suo valore artistico non deve essere messo in discussione, ed è da questo che bisogna ripartire per donare al film la doverosa collocazione critica.
La voce narrante, dunque. L’escamotage, tipico sia dei documentari dell’epoca che dei cinegiornali prodotti dall’Istituto Luce, serve a Crucillà e Camesasca per scandire ritmi e tempi di un arco temporale breve eppure lunghissimo (una mezza giornata racchiusa in neanche quaranta minuti di montaggio). Se a un orecchio disattento possono giungere le stesse svisate retoriche che appesantivano il corpo visivo dei lavori del Luce, la verità dei fatti è ben altra: nella voce di Crucillà alberga, in più di un’occasione, il dubbio, e non si fatica a rintracciare scorie di una disillusione che per l’epoca – ancora euforica per la vittoria contro le truppe nazi-fasciste e la democratizzazione del paese – suona in maniera davvero innaturale, per un “documentario”.

È dunque in questo aspetto che si rintraccia un’anima sanamente neorealista, apparentamento che sotto altri punti di vista potrebbe a ragione apparire forzato. Guidati da un’idea illuminata, e non priva di un profondo coraggio, i produttori decidono di non affidarsi, per i personaggi in scena, ad attori consumati: una scelta dettata senza dubbio anche dagli scarsi mezzi economici a disposizione, ma che porta a una deriva insospettabile. Non solo come attori non sono assoldati professionisti, ma persone prese dalla strada, ma addirittura si fa ricorso ad alcuni tra coloro che presero parte in maniera effettiva ai fatti narrati. Sono così “veri” alcuni dei partigiani che arrestarono Mussolini, i coniugi De Maria nella cui cascina venne tenuto prigioniero il duce del fascismo, e perfino uno dei soldati nazisti che aveva tentato di nasconderlo tra i tedeschi in fuga verso il confine. Un’operazione che non ha molti eguali nella storia del cinema italiano e che si dimostra ancor più estrema, vista e considerata la materia del contendere.
A questa scelta di surreale verismo, con i reali protagonisti della vicenda impegnati a interpretare loro stessi in una timbrica che vira invece con forza verso una drammatizzazione a pochi passi dal melò (si veda la scena della morte del partigiano), si contrappone una messa in scena di rara potenza espressiva. Tragica alba a Dongo combatte la sua battaglia con lo sguardo dello spettatore con un montaggio convulso, movimenti di macchina mai banali o proni alla semplice narrazione e una serie di inquadrature fuori asse che aumentano la drammaticità del tutto. A occuparsi della macchina da presa, in effetti, era l’unico professionista della troupe, il pordenonese Duilio Chiaradia, che al termine delle riprese venne assunto in RAI e qui firmò la regia del primo telegiornale nel 1954, sotto la direzione giornalistica di Vittorio Veltroni. La capacità tecnica di Chiaradia, unita ad alcune idee registiche particolarmente efficaci, a partire dalla scelta di come e quanto mostrare di Mussolini che si esplicita nella splendida sequenza dell’abbandono del pastrano per camuffarsi da nazista, rendono Tragica alba a Dongo un’opera di straordinario interesse cinefilo. Anche la secchezza espressiva, dovuta alla breve durata del film, ne conferma il valore estetico prima ancora che storico.

Non furono dello stesso parere le commissioni di censura coordinate da Giulio Andreotti che, in due occasioni nel 1951 e nel 1953, rifiutarono di concedere il nulla osta per la proiezione pubblica. I motivi, a partire da quello strettamente politico, sono fin troppo chiari, anche se è probabile che abbia influito la scarsa dimestichezza di Maschera e Zanolla con l’ambiente cinematografico romano. Due produttori improvvisati, e per di più lontani dai salotti del potere, non avevano la forza e la capacità di contrapporsi in alcun modo alla bieca cecità conservatrice della Democrazia Cristiana: invece di combattere fino allo stremo delle forze, finirono poco per volta per rinunciare. Così Tragica alba a Dongo finì prima in soffitta, nel vero senso della parola: fu lì che venne miracolosamente ritrovato, dopo il passaggio a Torino nel 1988 e la morte di Crucillà, e restituito ancora una volta alla vita in sala che gli fu ripetutamente negata.
Quale sarà il destino del film, ora che anche i media sembrano averne riscoperto la modernità, è difficile prevederlo. La speranza è che non rimanga materiale per pochi intimi, storici, archivisti o ricercatori.

Info
Tragica alba a Dongo sul sito del Torino Film Festival.

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