Vittoria e Abdul

Vittoria e Abdul

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Rispolverando, oltre a Judi Dench, anche il meccanismo di Philomena, Stephen Frears con Vittoria e Abdul realizza un inno ai buoni sentimenti ipocrita, eticamente ambiguo e persino – neanche troppo velatamente – razzista. Fuori concorso a Venezia 74.

Sì, badrona

La vera storia dell’amicizia tra la regina Vittoria e il giovane segretario Abdul Karim, diventato suo precettore, consigliere spirituale e devoto amico. [sinossi]

«Tutto è ruvido in Scozia». È questa l’unica battuta riuscita di un film come Vittoria e Abdul, che altrimenti è pieno di una certa tipica alterigia inglese, di quasi-smaccato razzismo nei confronti dell’India e di ipocriti buoni sentimenti che si addensano ben presto fino a prendere la forma di una melassa indigeribile. Evidentemente Stephen Frears, che ha portato il suo nuovo lavoro fuori concorso a Venezia sull’onda del successo che ottenne con Philomena, deve essere convinto che la perfida Albione sia ancora la gloriosa e feroce nazione di un tempo, quella dove non tramontava mai il sole. Non si spiega in altro modo la scelta di raccontare una storia come quella dell’incontro avvenuto tra la regina Vittoria e un impiegatuccio indiano alla fine dell’Ottocento, ispirandosi a un diario venuto di recente alla luce. E non si spiega in altro modo soprattutto la chiave che Frears dà al racconto, tutto teso a esaltare il servizievole Abdul che, solo per fare l’esempio più eclatante, bacia i piedi della regina sia da viva che da morta. Addirittura viene il sospetto che Frears rimpianga la schiavitù.

Non è un caso che l’amico di Abdul, con il quale questi si trasferisce dall’India all’Inghilterra proprio per portare un omaggio alla regnante (e poi i due finiranno per installarsi lì), accusi il Nostro di comportarsi come lo zio Tom. Frears è consapevole dunque del rischio che corre, ma mette furbescamente in bocca l’accusa a un personaggio saccente e incancrenito dall’invidia, facendo così risaltare ancor di più la purezza dell’angelico Abdul. Il quale, dal canto suo, appare come uno dei protagonisti più odiosi visti sullo schermo negli ultimi anni, atteggiato com’è a evidenziare la sua ingenuità e la sua benevolenza verso il prossimo, così impegnato a farsi voler bene da tutti – dalla regina come dallo spettatore – che finisce per incarnare il degradato e tardivo parto dell’orientalismo (il modo cioè in cui gli occidentali si sono costruiti un’Oriente di loro fantasia, addomesticato ed esotico). E che dire poi della regina, interpretata da una Judi Dench che riesce nell’impresa di risultare più insopportabile ancora di quanto non lo fosse stata in Philomena?
Il rapporto tra i due che dovrebbe aprire i cuori e le menti al confronto tra culture – visto che lei addirittura si mette a imparare l’hindi – è al contrario posticcio e insincero, basato per l’appunto sulla sudditanza dell’uno nei confronti dell’altra. Evidentemente Abdul sorride più e meglio dei valletti autoctoni, che tediano la sovrana con carte da firmare ed eventi da presenziare.

Ma Vittoria e Abdul non risulta fastidioso solo per i suoi motivi ideologici, appare anzi grossolanamente schematico dal punto di vista narrativo, visto che ad esempio si ripete tale e quale un identico movimento: per almeno cinque o sei volte Abdul riceve un certo tipo di promozione da parte dell’anziana Vittoria, ciò scatena inevitabilmente le proteste dell’entourage della corona, questo provoca la reazione stizzita della donna, l’entourage minaccia Abdul, ma poi alla fine tutto rientra e si decide di ingoiare l’ennesimo amaro calice.
E persino più grave appare il comportamento che Frears adotta nei confronti della moglie di Abdul e della madre di lei: completamente velate – perché, si scopre ad un certo punto, Abdul è musulmano – non esprimono mai un’opinione tanto da risultare accessorie, silenti, sottomesse. Eppure, magari, una moglie avrebbe anche il diritto di lamentarsi del fatto che il marito preferisca la compagnia di un’anziana donna alla sua. Su questo piano perciò si aggiunge, rispetto alla linea pseudo-razzista, anche quella maschilista. D’altronde è giusto dire che, se Frears maltratta anche il figlio della regina, il primo ministro, il medico e altri ancora, questi almeno – pur se antipatici in maniera macchiettistica – hanno il diritto di proferire verbo, di esprimersi.

Appare infine decisamente preoccupante che, in un periodo storico lacerato dai conflitti cultural/religiosi, arrivi un film presuntuoso, retrogrado e colonialista come Vittoria e Abdul. Ci meritiamo tutti di meglio.

Info
La scheda di Vittoria e Abdul sul sito della Biennale.
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