Il lungo viaggio verso la notte

Il lungo viaggio verso la notte

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Tratto dall’omonima pièce di Eugene O’Neill, Il lungo viaggio verso la notte di Sidney Lumet tenta la rilettura cinematografica di una fonte teatrale cercando di evitare l’asservimento espressivo nei confronti del testo originario. Diseguale e spesso prezioso. In dvd per Sinister e CG.

Ritiratasi nella sua residenza estiva, la famiglia Tyrone si confronta, nell’arco di un’intera giornata, dal mattino a notte fonda, col proprio passato, i propri fallimenti e rimpianti. La madre Mary è schiava della morfina, il padre James è un ex-attore di teatro ormai ossessionato dal denaro e dalle proprietà terriere, i due figli Edmund e Jamie sono a un passo dall’alcolismo. Edmund si scopre affetto da tubercolosi, mentre la madre Mary è prossima a una delle sue crisi deliranti… [sinossi]

Opera molto amata dallo stesso Sidney Lumet, Il lungo viaggio verso la notte (1962) è sicuramente un alto banco di prova per il suo autore cinematografico, giunto al sesto film per il grande schermo dopo esperienze teatrali e televisive.
Come accadrà più volte nella sua lunga carriera, Lumet qui si fa nobile rilettore cinematografico di grandi successi provenienti dalle tavole del palcoscenico, riuscendo spesso a trovare un tesissimo punto di fusione tra istanze espressive spesso in conflitto, o recessive una verso l’altra. Di frequente infatti le trasposizioni in cinema di fonti teatrali si traducono in cosiddetto “teatro in scatola”, dove il linguaggio-cinema abdica alle sue priorità in favore della fedeltà al testo e alle grandi prove di cast d’attori puntualmente prestigiosi. È un rischio costante, con ripetuti esiti discutibili; ne escono film ibridi, oltretutto di difficile spendibilità sul mercato, e neppure troppo memorabili per il loro evidente debito espressivo verso la fonte. Tanto che spesso viene da chiedersi quale sia la necessità di tali trasposizioni rigide e ingessate, poco propense a riflettere con i mezzi specifici del cinema sull’originaria materia narrativa, e l’unica (nobile) risposta è da rintracciarsi nel tentativo di dare maggiore visibilità, a prezzi più ridotti, a classici del teatro altrimenti riservati a una fetta elitaria di pubblico. Che tuttavia rimane abbastanza elitaria anche al cinema, poiché il prodotto finito (il “teatro in scatola”) può risultare “popolare” grazie alle star spesso coinvolte, ma non immediatamente fruibile da una vasta platea.

D’altro canto, la cooperazione espressiva cinema-teatro ha dato vita a capolavori o opere memorabili anche sullo schermo (citando alla rinfusa i primi che vengono in mente restando nel territorio dei grandi classici americani, Un tram che si chiama Desiderio, 1951, Elia Kazan; Improvvisamente l’estate scorsa, 1959, Joseph L. Makiewicz; La gatta sul tetto che scotta, 1958, Richard Brooks; Chi ha paura di Virginia Woolf?, 1966, Mike Nichols, per non parlare di tanto ottimo cinema shakespeariano… in generale gli esempi potrebbero essere davvero numerosi).
Nel caso di Lumet, poi, il rispetto dell’unità teatrale di spazio si piega anche a una specifica predilezione dell’autore in ambito di cinema per le vicende in luogo chiuso, altra sfida che percorre la storia della settima arte originandosi da fonti teatrali e non; basti pensare all’origine “poli-canale” del testo di La parola ai giurati, 1957, folgorante esordio cinematografico di Lumet che fu scritto per la tv, rappresentato a teatro e tradotto splendidamente in cinema.

Il lungo viaggio verso la notte in forma-cinema si proietta in un tentativo a suo modo estremo e di inevitabile riuscita diseguale: restringere drasticamente lo spazio scenico, restare del tutto fedeli alla parola teatrale, sfondare quindi nella durata del montaggio finale (ben 163 minuti, fortemente ridotti nella sua prima edizione italiana), affidarsi agli originali pochi personaggi in scena (solo 5, ma di fatto 4) e trovare comunque una chiave prettamente cinematografica per tale materiale preesistente di perigliosa rilettura.
La fonte originaria incombe, plumbea, sulla sfida di Sidney Lumet, dal momento che il testo teatrale di Eugene O’Neill è considerato uno dei più alti conseguimenti di tutta la drammaturgia statunitense, prontamente premiato col Pulitzer. Oltretutto Il lungo viaggio verso la notte rappresenta un caso ancor più particolare nella produzione del drammaturgo americano; su precisa volontà del suo autore, fu rappresentata solo postuma, e comunque con largo anticipo rispetto alle intenzioni di O’Neill, che aveva chiesto per questa sua opera la divulgazione solo 25 anni dopo la sua morte.
Poi i tempi si restrinsero grazie all’intervento forzoso della vedova dell’autore, Carlotta Monterey, che riuscì a portare l’opera all’attenzione del pubblico già nel 1956. Tale riserbo da parte di O’Neill è da attribuire alla materia dolorosamente autobiografica di cui il testo è impregnato; i riferimenti agli anni giovanili dell’autore e alla propria famiglia sono più che evidenti, senza neanche troppe dissimulazioni (nomi identici o simili tra personaggi reali e finzione, professioni altrettanto identiche, milieu identico, tare e malattie a loro volta corrispondenti, origini irlandesi della casata, in gioventù O’Neill soffrì davvero di tubercolosi…).

In pratica O’Neill trasforma gli anni della propria formazione giovanile in cupissimo materiale per una decadente tragedia familiare. Come già in altre sue opere teatrali (vedi tra gli altri la trilogia “Il lutto si addice ad Elettra”, che ricalca la struttura dell’“Orestea”) il modello greco classico informa temi e modalità di rappresentazione, ricollocati nel preciso contesto della cultura americana. Anche Il lungo viaggio verso la notte vede rapporti conflittuali tra padri e figli, madri morbose, risonanze freudiane, ambivalenze emotive e sconfitta predestinata. A grandissime linee sono del resto temi che percorrono molto teatro americano (Tennessee Williams, Arthur Miller…) di intensivo sfruttamento cinematografico tra anni Quaranta e Sessanta.
L’amore-odio per la figura paterna, ad esempio, è un tipico tòpos teatral-cinematografico del tempo, ricontestualizzato secondo coeve coordinate culturali. Tuttavia, ne Il lungo viaggio verso la notte pare di assistere a un ulteriore giro di vite sulla disperazione, l’esacerbazione di rabbie e conflitti, l’accumulo di sciagure. Madre morfinomane e sull’orlo della follia, padre nobile attore decaduto di teatro oramai interessato solo ai possedimenti terrieri, figli alcolizzati o quasi; e poi nel passato tentativi di suicidio, figli deceduti da piccoli e conseguenti turbe legate al parto, nascita come senso di colpa, tubercolosi che incombe, fallimenti professionali, continui rimpianti (sinceri o artefatti) sulle opportunità mancate, e terribili sospetti su malevole intenzioni tra consanguinei dettate da un’invidia feroce. Non ultima, una cupa idea di fede cattolica, schiacciante e oppressiva, ai limiti del fanatismo castrante. Il film di Lumet sembra insomma ereditare una veste di grondante decadentismo, non a caso evocato con palesi citazioni colte, ivi compreso l’Enivrez-vous di Charles Baudelaire.

Si tratta di un maledettismo platealmente ricercato e coccolato, che malgrado un senso di sconfitta perenne e predeterminata, dato come assunto iniziale che grava su tutti i personaggi, riesce comunque a costruirsi secondo una sorta di schema a spirale. Sempre più cupo, sempre più conflittuale, sempre più privo di uscita (forse l’unica uscita possibile è la follia), man mano che ci si avvicina alla notte. Lumet rispetta infatti le unità aristoteliche di tempo, luogo e azione, ma le piega a un progressivo sprofondamento nella più completa disperazione. Dall’esordio all’aperto, al mattino, nel giardino della villetta sul lago (con una parentesi nella rimessa), ci si rinchiude successivamente tra le quattro pareti; prima una sosta in sala da pranzo, poi lo spazio si restringe all’estremo, chiudendosi tutto in un angusto salotto. Avviene tutto lì, con tempi lunghissimi ed esasperati, tra la scala (che allude a un ominoso piano superiore, mai visualizzato), il tavolo da gioco e le poltrone. Lumet rispetta la fonte senza cambiare una virgola ai dialoghi e affidandosi a lunghe sequenze, ma fin dalle prime battute lavora sagacemente sui volti dei personaggi, intervallando i piani allargati a strette inquadrature sui protagonisti.
Di più: utilizza espressivamente i movimenti di macchina, a cominciare da quel movimento circolare a pedinare i primi segni evidenti di squilibrio della madre. Tale pedinamento si traduce poi in sguardo crudele nel seguire, nel pomeriggio, la madre nei suoi contorcimenti sul tappeto in salotto in preda agli effetti rassicuranti della morfina. In qualche modo si tratta della chiave di volta espressiva dell’intero film; da quel momento Lumet, con l’avvicinarsi della notte, conferisce tratti sempre più onirici e spettrali alle sue immagini. In mezzo a un quieto fluire delle riprese in funzione del lavoro degli attori, qua e là si allungano e si deformano le figure umane, i punti di vista si fanno più esasperati, il gioco (splendido) delle luci su chiari e ombre, specie sui volti, s’intensifica.

Si accennano contreplongés a marcare la distanza e l’oppressione di un personaggio sull’altro. In una parola, l’immagine segue il racconto, lo asseconda e insieme lo esalta, lo vivifica, si fa essa stessa racconto. Una chiave espressiva che riesce a conservare la totale fedeltà al testo e insieme riesce a rileggerla secondo gli strumenti di un altro medium. Certo, il confronto con un testo siffatto è irto di pericoli; la predominanza dell’attore, delle cadenze teatrali, della compiaciuta costruzione dei dialoghi, in tutto sostitutivi dell’azione, della tendenza al grande monologo, frena il lavoro di Lumet e lo sottopone a una costante prova di resistenza.
In più non lo aiutano gli istrioni chiamati a raccolta, in particolare il padre incarnato da Ralph Richardson che non abbandona quasi mai l’impostazione vocale da palcoscenico. E pure Katharine Hepburn, che raccolse una nomination all’Oscar, spesso rasenta la maniera, tanto che ai due grandi attori convocati nei ruoli dei genitori si preferiscono le irruenze dei due figli, Jason Robards jr e Dean Stockwell (nei panni di un alter-ego di Eugene O’Neill). Tutti e quattro raccoglieranno al Festival di Cannes del 1962 i premi per i migliori attori.

Resta altrettanto interessante l’impostazione ideologica di un’opera che sembra voler aggiornare l’archetipo della tragedia greca a un preciso profilo antropologico. Il morboso contesto familiare in cui il giovane O’Neill viene a formarsi è anche continuamente percorso dal denaro, fino agli esiti più disumani. Alla nobiltà dell’intellettuale si oppone il grezzo materialismo della proprietà (uno dei temi più ricorrenti intorno al quale si sviluppa il conflitto drammatico del testo), al quale il padre James ha aderito rinunciando ai sogni di gloria come attore teatrale. Ossessionato dalla povertà dalla quale proviene, il padre tenta di tirare al risparmio anche sulle cure necessarie al figlio Edmund per guarire dalla tubercolosi, così come ha tirato al risparmio per salvare la moglie Mary dalla morfina. È il punto più alto di conflitto, l’esplosione più violenta, che giunge dopo più di 2 ore a coronamento di una lenta crescita e maturazione. È anche l’unico momento di vera ribellione a uno schiacciante stato di cose. Lumet asseconda tale esplosione regalando a Dean Stockwell un primissimo piano di rara efficacia, in chiusura di una lunga sequenza di confronto col padre. In sostanza, tramite la famiglia Tyrone O’Neill e Lumet sembrano voler raccontare il fallimento di un intero sistema di valori, fondato su una precisa idea di famiglia intimamente legata alla proprietà e all’accumulo di ricchezze. La messa in scacco di un intero modello culturale, il suo fallimento, ivi compresa l’incapacità di dare vita a nuove generazioni realmente autodeterminate. Lo dimostra la stessa ribellione di Edmund, che presto si acquieta nella resa, nel senso di colpa. Non resta che la follia, il delirio, come unica vera pace. In mezzo a un buio sconfinato.

Extra: galleria fotografica.
Info
La scheda di Il lungo viaggio verso la notte sul sito di CG Entertainment.
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