Prendre le large

Prendre le large

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Con protagonista Sandrine Bonnaire nei panni di un’operaia che decide di seguire la ‘sua’ fabbrica in Marocco, Prendre le large di Gaël Morel mette in opera una spietata analisi del lavoro in tempi di globalizzazione selvaggia. Alla Festa del Cinema di Roma 2017.

Ma il lavoro che mi porto dentro non mi fa vivere felice mai

La vita di Edith, operaia tessile, cambia radicalmente quando l’azienda per cui ha sempre lavorato decide di delocalizzare in Marocco. Di fronte alla prospettiva della disoccupazione, con un figlio lontano e senza altri legami, Edith accetta il trasferimento a Tangeri. La vita nella nuova fabbrica e l’adattamento in un paese sconosciuto non sono facili, ma Edith trova conforto nell’amicizia di Mina, la proprietaria della pensione in cui alloggia. [sinossi]

In questi ultimi vent’anni di globalizzazione selvaggia e di perdita progressiva di ogni diritto sindacale, il cinema francese è stato forse l’unico ad affrontare in maniera costante e lucida il tema della crisi del lavoro. Dal Cantet di Risorse umane, passando per l’opera di Robert Guédiguian, si arriva proprio a Prendre le large, con cui Gaël Morel mette in scena il dramma di Edith, un’operaia di mezz’età (interpretata da una misurata Sandrine Bonnaire), che sceglie di andare a seguire la ‘sua’ fabbrica tessile in Marocco, nel momento in cui questa viene delocalizzata dove la manodopera costa meno.
Presentato alla 12esima edizione della Festa del Cinema di Roma, Prendre le large è la diagnosi spietata, malinconica e disperata della fine di un sogno: l’idea del lavoro dignitoso e unanimemente (e umanamente) rispettato, l’idea del lavoro che migliora la vita sociale. In Francia – in Europa – non ce n’è più e la nostra protagonista sceglie – ottusamente e testardamente – di seguirne il miraggio fino a Tangeri.
Lì scoprirà – e noi con lei – che il concetto di fabbrica contemporanea rappresenta un mostruoso ritorno indietro nel tempo, alla fine dell’Ottocento, in una situazione simile a quella che veniva raccontata da Monicelli ne I compagni: il progresso tecnologico è rimosso tanto che si usano ancora delle vecchie macchine da cucire (e l’avvolgente e ipnotica eleganza delle macchine tessili francesi, come mostrata nei titoli di testa, è qui ben lontana), non esiste la mensa e le operaie debbono portarsi da mangiare da casa, gli orari di lavoro sono massacranti e non viene fatta manutenzione, più o meno tutte rubano un po’ di stoffa con la condiscendenza della loro superiore, e così via. Ma, infine, addirittura, non esistono i sindacati. E così, quando Edith viene incastrata e accusata ingiustamente di furto, il licenziamento è pressoché immediato.

Si dirà, con arroganza, è pur sempre Africa. Però, come nota qualcuno nel film, la Spagna è lì, dall’altra parte del mare e si vede a occhio nudo. E allora eccolo qui, dipanato in tutta la sua immediatezza e senza possibilità di redenzione, il dramma del lavoro contemporaneo: o non ce n’è più, o – se è concesso – è al prezzo di una rinnovata schiavitù. Una schiavitù che comunque le colleghe marocchine di Edith giustamente preferiscono a una condizione ancora peggiore: andare a fare le puttane, come d’altronde probabilmente finirà per succedere all’unica amica che Edith si era fatta in fabbrica.

Morel racconta tutto questo senza mai lasciarsi andare alla retorica spicciola, e scegliendo un tono basso e dimesso – sia visivamente che dal punto di vista recitativo – che ben si accorda con l’asciuttezza narrativo/dialogica, e anche di montaggio. Ci bastano infatti pochi minuti all’inizio di Prendre le large – dagli operai in sciopero a Edith che fa la krumira, passando per la sindacalista ormai schifata da tutti – perché le premesse e le conseguenze siano perfettamente chiare e perché il passaggio in Marocco ci appaia inevitabile e inesorabile.
In più, Morel inserisce in questo racconto universale un appiglio autobiografico, evocando se stesso nella figura del figlio gay di Edith che cerca di tenere la madre lontano dalla sua vita, come pure evocando il padre, anch’egli operaio tessile. E così, la frase che dice Edith: “Mio padre credeva ciecamente nel lavoro, non ha mai saltato un giorno, neanche quando era malato”, ha sia la pregnanza del ricordo infantile (del regista e della sua protagonista), sia quella della chiosa, dell’epitome, dell’intera civiltà occidentale novecentesca. Il grande inganno del progresso.

Se allora si può avanzare un’obiezione a Prendre le large non è certo quella di non proporre soluzioni – anche perché nessuno le ha – quanto quella di trovare un’ultima finale scorciatoia. La scelta da parte di Edith di tornare in Marocco da padrona e non più da schiava sembra infatti la riproposizione estrema e postuma di una presunta superiorità e supremazia occidentale. Come se Edith andando possa portare con sé il know-how di rispetto del lavoro acquisito in patria. Non può essere così, e la risoluzione di Prendre le large appare un po’ facile e comoda. Evidentemente Morel ha scelto, con uno slancio di ottimismo della volontà, di chiudere con una nota di speranza. Che, proprio per questo, finisce per l’appunto per apparire come l’unico momento non credibile e non perfettamente motivato del film. Peccato.

Info
La scheda di Prendre le large sul sito della Festa del Cinema di Roma.
Il trailer di Prendre le large su Youtube.
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