Waking Life

Waking Life

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Waking Life di Richard Linklater fu accolto nel 2001 con un percepibile scetticismo da stampa e addetti ai lavori alla Mostra di Venezia. È ora di porre rimedio, per cercare di comprendere un’operazione artistica e concettuale di rara ambizione, soprattutto nel campo dell’indie statunitense, sempre più omologato. Un’opera/sogno che spezza logiche produttive, e non solo.

Gli onironauti

Una serie di incontri e di osservazioni in un mondo che potrebbe essere (o forse no) la realtà. Il film ha una particolarità: le sequenze, infatti, sono state prima girate ed editate come in un film normale, poi graficamente dipinte, fotogramma per fotogramma, con il computer da un team di oltre trenta artisti… [sinossi]
L’iguana finirà per mordere
coloro che non sognano.
Federico Garcia Lorca
Quando albeggia lo stato del sogno,
non giacere nell’ignoranza come un cadavere.
Entra nella sfera naturale della stabile presenza.
Riconosci i sogni e trasforma l’illusione in luminosità.
Non dormire come un animale.
Pratica in modo da unificare il sonno e la realtà.
Lo Yoga tibetano del sogno.

Non sarebbe poi così improvvido definire Waking Life “un film sul sogno lucido”. Ma cos’è, per i profani, un “sogno lucido”? Anni fa, in un internet ancora in fase pre-social, era possibile appoggiandosi ai motori di ricerca rintracciare la seguente definizione: «È chiamato così un sogno durante il quale si ha la coscienza di sognare. Il fenomeno è spontaneo e non appare in sé paranormale: tutti ne abbiamo avuto esperienza. Con un certo allenamento si può arrivare addirittura a controllare un sogno lucido e a modificare a volontà l’andamento. […] Talora nei sogni lucidi possono manifestarsi facoltà chiaroveggenti, telepatiche e precognitive, si può sognare di comunicare con persone defunte e avere da loro consigli e premonizioni, di parlare con viventi, di recarsi in luoghi conosciuti e sconosciuti: così che il sogno lucido finisce col confondersi con un’esperienza di bilocazione. Rimane il problema se tali sogni debbano essere considerati di carattere bilocativo, o se la bilocazione debba essere ridotta a un sogno lucido». Autore di questo approfondimento fu Ugo Dettore, parapsicologo nonché traduttore in italiano di Stendhal, Racine, Honoré de Balzac, Corneille, Swift, Shakespeare, Jack London e Dickens. Pur essendo un tema trattato soprattutto a partire dagli anni Sessanta del Ventesimo Secolo, il sogno lucido ha alle spalle riferimenti storici che riportano indietro le lancette del tempo addirittura fino ad Aristotele, secondo il quale il soggetto sognante cade nell’illusione che i fatti sognati equivalgano a realtà. Secondo il filosofo greco esisterebbe però la possibilità per l’addormentato di rendersi conto della propria condizione di sognatore e di far forza su questa consapevolezza per poter interagire con il sogno [1]. Nel corso dei secoli la bibliografia si ingrossa, passando dal caso del fisico cartaginese Gennadius citato da Sant’Agostino nel 415 agli yoga attribuiti a Naropa, maestro indiano del Buddismo Tantrico, dall’esortazione del maestro sufi Ibn-El Arab (secondo il quale “una persona deve controllare i pensieri in un sogno” [2]) a San Tommaso D’Aquino che nella Summa Theologica conferma l’esistenza dei sogni lucidi soprattutto “verso la fine del periodo del sonno, negli uomini sobri e in quelli che sono dotati di grande immaginazione”. Molti furono i filosofi attratti dal sogno lucido e dalle sue proprietà empiriche o anche di semplice speculazione: l’empirista Pierre Gassendi annotava di continuo i sogni di cui riusciva a prendere il controllo; come racconta Frank Seafield in The Literature and Curiosity of Dreams, lo scozzese Thomas Reid, filosofo del senso comune, sul finire del Diciottesimo Secolo raccontò di aver cercato ripetutamente di prendere possesso degli incubi che viveva. Tra i massimi teorici del sogno lucido va annoverato senz’ombra di dubbio il Marquis d’Hervey de Saint-Denys, autore nel 1867 de I sogni e i mezzi per dirigerli, resoconto scritto di esperimenti ventennali su di sé aventi come unico fine la presa di coscienza del sogno lucido (scopo raggiunto solo tre volte su più di tremila tentativi). Pare che anche Friedrich Nietzsche ritenesse di aver vissuto quelli che a partire dal 1913, con gli studi dello psichiatra olandese Frederik Willems van Eeden, vengono chiamati sogni lucidi. Divenuto un argomento di dominio pubblico, soprattutto all’interno dei salotti scientifici e letterari, il “sogno di conoscenza” viene citato nel 1924 da Thomas Mann ne La montagna incantata

Probabilmente Waking Life deve molto, più che agli autori citati fino a questo momento – ma un riassunto storico era in tutta evidenza necessario vista la poca dimestichezza della maggior parte delle persone con l’argomento – all’opera Sogni lucidi di Celia Green, redatta nel 1966 e tradotta in italiano per Le Mediterranee un lustro più tardi. Durante il flower power, in un’epoca storica dominata dall’apertura verso le filosofie orientali e i metodi alternativi di ricerca scientifica, il sogno lucido diventa un polo d’attrazione tutt’altro che secondario: nel 1978 si ha la prima verifica empirica dell’esistenza del sogno lucido, grazie alle registrazioni polisonnografiche (che consistono nella registrazione dei movimenti muscolari del dormiente, l’elettroencefalogramma e l’elettrocardiogramma dello stesso) svolte su un sedicente esperto nei sogni lucidi dal professor Hearne nel corso suo dottorato di ricerca [3]. Il soggetto studiato mostrava la sua capacità di governare i sogni attraverso movimenti degli occhi concordati in precedenza. Con il procedere degli esperimenti i soggetti arrivavano a comunicare con l’esterno attraverso l’uso del codice morse, pronunciando parole o iniziali di nomi. Proprio le intuizioni di Hearn di mettere in contatto la materia onirica con un macchinario tecnico per cercare di renderla tangibile, accettabile, di renderla finalmente scienza, sembrano muoversi nella stessa direzione che prenderà, nei primi vagiti del Ventunesimo Secolo, Waking Life di Richard Linklater.

Quando Waking Life fu presentato in concorso alla cinquantottesima edizione della Mostra di Venezia la reazione della stragrande maggioranza degli accreditati stampa e degli addetti ai lavori si fermò a un totale disinteresse, e in alcuni casi si spinse anche nei territori dell’aperta ostilità. La proiezione stampa non venne accompagnata da fischi, ma il film ristagnò negli ultimi posti nella classifica di gradimento. Accusato di contenere dialoghi eccessivamente complessi, Waking Life venne considerato come un esperimento non riuscito, un film più simile a un volume di filosofia che a un’opera cinematografica, un pastiche ambizioso e non privo di pesantezze. Insomma, dialoghi troppo serrati, intenti troppo intellettuali, divagazioni troppo filosofiche che escludono lo spettatore all’oscuro della matassa filosofica da svolgere. Non male per un regista spesso accusato di rimanere troppo in superficie e di essere troppo innamorato dei suoi personaggi (critiche mosse a quei tempi sia per La vita è un sogno che per Suburbia, ma in parte anche per Prima dell’alba, forse il film-simbolo della prima parte della carriera del regista texano).
Al di là del valore di merito che si vuole attribuire a Waking Life, a sorprendere ancora oggi a distanza di quasi venti anni da quel momento è la lettura che bollerebbe il film come verboso, estenuante sotto il profilo dialettico. Nonostante lo schema del film, riprendendo a grandi linee i concetti guida che Linklater seguì per portare a termine l’operazione monstre Slacker, preveda che i personaggi si incontrino e, senza definirsi in alcun modo davanti alla macchina da presa, dialoghino tra loro del rapporto tra la vita, il sogno e la morte, la peculiarità di Waking Life sta nell’esplicitare con il supporto dell’immagine filmata l’intricato dedalo di riferimenti cultuali edificato attraverso i dialoghi. Il senso reale del film è insito nella sua lavorazione. Come sarà più tardi per A Scanner Darkly, Waking Life è un film lavorato interamente al rotoscope, grazie a Bob Sabiston [4] e Tommy Pallotta, amici di Linklater che aveva apprezzato alcune loro autoproduzioni.
Da un lato perfetto espediente per rendere in immagini la naturale liquidità dell’istante onirico, il rotoscopio fa riemergere dalle brume del tempo il cinema dei fratelli Fleischer, il miracoloso punto d’incontro tra la ripresa del reale e la sua sublimazione attraverso il codice irrefrenabile dell’immaginario. Nel sogno nel sogno nel sogno di poeana memoria, si ritrova la matrice dell’immagine in movimento, la radice storica, la base di ogni epidermide visionaria. Il realismo a suo modo quasi brutale del film di Linklater – che nello stesso anno con il progetto Indigent porta a termine lo spassoso Tape, crudo esperimento in tempo diretto – dissolve in una nuvola di false sveglie, legate in una logica antinarrativa dall’invettiva metà Ralph Waldo Emerson metà Thoreau, tra la nevrastenia contemporanea e rigurgiti di beat generation.

Waking Life si apre sull’immagine di due bambini intenti a giocare; la bambina ha tra le mani un foglio di carta e chiede di volta in volta al bambino di scegliere un numero. L’ultimo numero scelto dà la soluzione al gioco, e la soluzione altro non è se non “il sogno è il destino”. È solo ora, dopo che è stato dato l’assunto, che può entrare in scena il protagonista, il sognatore lucido, il “padrone” (inconsapevole) del sogno. Sogno che ancora non è tale, o quantomeno ancora non appare tale; il protagonista cammina per strada e viene avvicinato da una sorta di macchina/barca, guidata da un autista che ha l’aria del marinaio e il carisma del traghettatore. L’uomo alla guida della strana vettura inizia a parlare, e nella sua logorrea spicca la frase “il viaggio non richiede una spiegazione, ma solo dei passeggeri”. Ma il sognatore non ha destinazione, e infatti quando gli viene chiesto dove desideri essere lasciato risponde “ovunque, anche qui va benissimo”: manca dunque un reale rapporto spaziale, il luogo nel quale si svolge l’azione non ha confini, non ha delimitazioni. Quando il giovane viene investito da un’automobile si sveglia, palesando finalmente la sua natura di sognatore.
Se per il protagonista ancora non è chiara la sua partecipazione a un sogno, questo appare sempre più evidente per lo spettatore, grazie all’utilizzo della tecnica del rotoscopio. La fotografia di Tommy Pallotta, modificata e ritoccata, trasformata in una sorta di dipinto in fieri, fa perdere contorni alle figure, sfuma gli sfondi, deforma le immagini, arriva a mostrare le figure astratte. Quando il protagonista si trova ad ascoltare il monologo di una donna sull’importanza del linguaggio, sulla sua evoluzione, sull’astrattismo figurato che esso comporta e sulla relatività della possibilità di un discorso che sia comprensibile allo stesso modo da tutti (“quando io dico la parola amore, questa esce dalla mia bocca e colpisce l’orecchio del mio interlocutore. Tramite una serie di percorsi complicati arriva al suo cervello dove viene decodificata. Ma la parola è inerte, morta: se io dico amore questo termine viene filtrato dall’esperienza soggettiva della persona con cui sto parlando: può evocargli un amore felice, o un amore finito male. Quando io gli chiedo se ha capito, lui mi risponde di sì: ma io come faccio a sapere che ha realmente capito?”), lo spettatore non vede solamente il mezzo busto del personaggio che parla. Grazie alla tecnica usata da Sabiston prendono consistenza i discorsi, le immagini figurate; quando il personaggio pronuncia “acqua” si vedono delle onde muoversi alle sue spalle, quando pronuncia “tigre” l’immagine stilizzata di una tigre e via discorrendo. La fotografia e il suono acquistano dunque un senso di primaria importanza, smentendo la definizione di Waking Life come di un film logorroico, basato esclusivamente sulla prolissità dei dialoghi.

Nel suo ruolo di “navigatore del sogno”, il protagonista dell’opera di Linklater ascolta il dialogo di una coppia a letto (il sempiterno duo Julie Delpy/Ethan Hawke, protagonista della trilogia dei “Before…”), durante il quale l’uomo espone la teoria, che ha dei sostenitori nel mondo della scienza, secondo la quale in caso di morte il cervello smetta la sua attività tra i sei e i dodici minuti successivi all’avvenuto decesso del corpo. E se in quel relativamente breve lasso di tempo il cervello arrivasse a creare l’illusione di una vita? Il sogno dunque come illusione della vita, altra fuga dal reale come il cinema stesso?
In una sequenza l’artista Caveh Zahedi, nella parte di se stesso, discutendo con un interlocutore parla del cinema come del momento sacro, attimo nel quale una precisa persona svolge una precisa azione in un preciso luogo. Linklater fa dunque sua la teoria baziniana, proponendo una ricetta per il cinema statunitense. Si ha la necessità di confrontarsi con un cinema che non sia una cieca e falsa riproduzione della realtà, ma che sia la realtà; realtà intesa come momento unico e irripetibile, come attimo supremo, come – per l’appunto – momento sacro. E questo momento sacro ha, almeno in Waking Life, le movenze stesse del sogno; Linklater lo dimostra fin dalla sequenza in questione, quando i due dialoganti si mutano in nuvole, spazzate via dal vento. Wiley Wiggins, il protagonista, svolge il ruolo di spettatore, visto che assiste al succitato dialogo perché proiettato in un cinema, dove lui è l’unico spettatore. Qui il rapporto tra i personaggi ha dunque una vera e propria valenza di attore/spettatore, in quanto la barriera tra il soggetto sognante e l’oggetto sognato è posta dallo stesso schermo cinematografico. Altre volte durante il film si ha la netta impressione che il protagonista attraversi, nel suo viaggio onirico, diversi set cinematografici: è così durante lo sfogo sulla situazione politica statunitense che un uomo fa dalla sua automobile parlando in un megafono, o durante il rabbioso monologo di un uomo in prigione che promette vendetta, o ancora durante il dialogo tra due donne in un caffè. E il sogno è ancora sfacciatamente cinematografico quando si assiste al dialogo tra uno scrittore e una donna in un bar e, nello stesso locale, tra il barman e un avventore.

Il sogno come architettura della mente per creare scenografie, costruire brandelli di narrazione, perdersi dietro vagheggiamenti d’avanguardia o ricreare sublimi istanti, memorie ‘truffate’ del passato, ipotesi di futuro. Il sogno come atto creativo, buen retiro di un’indipendenza senza più risorse economiche, ultimo sberleffo da agitare in faccia all’istituzione. Waking Life è il rantolo di un cervello che non ha però alcuna intenzione di spegnersi, l’atto indomito di un cineasta che non ama farsi catalogare né rinchiudere dentro schemi precostituiti, e che era allora come oggi alla ricerca di se stesso, del senso dell’America, dell’agitarsi angoscioso degli esseri umani.
Il protagonista, questo ragazzo curioso immerso in un mondo suo eppure così sconosciuto, è solo un viaggiatore; è un viaggiatore senza meta, onironauta desideroso sì di conoscere, ma soprattutto desideroso di svolgere il proprio compito, ovvero viaggiare. E questo viaggio nel sogno è sfumato, non ha contorni, non porta con sé risposte e soprattutto non ha fine: l’ultima inquadratura mostra il protagonista che, superata anche la zavorra ultima della gravità (laddove spazio e tempo non hanno più un valore unico e condivisibile come fanno a persistere altre regole proprie della veglia come per l’appunto la forza gravitazionale?) si libra in volo, allontanandosi da terra con sempre maggiore velocità fino al momento in cui, oramai ridotto a una nera figura stilizzata, il suo contorno si fonde con il blu del cielo. Il viaggio che il protagonista intraprende dovrebbe portare all’intima conoscenza di se stessi, alla consapevolezza della propria essenza, come gli fa notare anche uno degli uomini incontrati: “Non hai ancora incontrato te stesso, ma coloro che incontri potrebbero presentarti a te stesso”. Sognando di sognatori nel sogno del cinema.

NOTE
1. Questa lettura del sogno da parte di Aristotele è riportata da R.M. Huthinson nel Great Books of the Western World Vol. VIII, pag. 702-706. Encyclopedia Britannica, 1952.
2. Idris Shah, The Sufis, Octagon Press 1964.
3. K.M.T. Hearne, Lucid dreams: An electrophysiological and psychological study, Doctoral dissertation, University of Liverpool, 1978.
4. Bob Sabiston prima di partecipare al set di Waking Life aveva diretto i corti animati Beat Dedication (1988), Grinning Evil Death (1990), Roadhead (1999), Snack and Drink (1999) e Figures of Speech (2000).
Info
Il trailer di Waking Life.
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