Fast Food Nation

Fast Food Nation

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Partendo da un best-seller letterario Richard Linklater racconta in Fast Food Nation l’universo capitalista delle catene alimentari. Tra documentario e fiction, un’opera coraggiosa e sottostimata.

Meat is Murder

Il responsabile marketing della catena di fast food Micky’s, Ron Anderson, viene informato da un suo superiore che la carne destinata a diventare hamburger per il prodotto di punta della catena, il panino “Big One”, ideato dallo stesso Anderson, è risultata contaminata da un’elevata quantità di feci. Gli viene così ordinato di andare a indagare direttamente in fabbrica nella speranza che riesca a sapere qualcosa di più sulla faccenda. Si reca così a Gody, in Colorado, dove ha sede la ditta che si occupa della macellazione dei bovini… [sinossi]
La parabola cinematografica compiuta nel corso degli ultimi due decenni da Richard Linklater, pur non essendo ancora giunta a conclusione, ha oramai acquistato una compattezza etica e stilistica quasi granitica, che ci permette di analizzarla in ogni sua componente. Fin dagli esordi tesi con vigore quasi partigiano verso il minimalismo di scuola indie (l’esilarante cortometraggio Woodshock e soprattutto il lungometraggio autoprodotto It’s Impossible to Learn to Plow by Reading Books), è risultato evidente come il cineasta texano fosse spinto verso la macchina/cinema dall’intento di portare alla luce, mostrandola in ogni possibile variante, “l’altra America”.
Non dovrebbe dunque stupire il pubblico più attento l’uscita nelle nostre sale di Fast Food Nation, film vecchio oramai di un anno e poco più, visto che approdò sulla Croisette in compagnia del Philip K. Dick radiografato al rotoscope di A Scanner Darkly. Fast Food Nation è opera ben più sfaccettata e sfuggente di quanto non possa sembrare a prima vista; coloro che ne hanno dato lettura puntando l’intera posta in palio esclusivamente sulla componente pamphlettistica – pur presente, con vigore e senza alcun tentennamento compromissorio – si sono resi colpevoli di una visione a dir poco limitata.

Nella sua digressione, particolareggiata e pronta a sposare i registri più diversi tra loro, Fast Food Nation non è una mera requisitoria contro le multinazionali, né un atto di accusa contro la volgare decadenza capitalista: o meglio, entrambe queste esigenze sono rispettate, ma non è su di loro che bisogna far leva per cercare di penetrare in profondità la pellicola di Linklater. Come dicevamo in precedenza, il percorso autoriale del cineasta si è distinto, anno dopo anno e film dopo film, per la sua pertinace voglia di non accontentarsi degli Stati Uniti in provetta propinatici dalla standardizzazione hollywoodiana, svelandone i lati meno celebrati – che non diventano per forza, altra errata elucubrazione critica, i dark side di turno – e cercando di dar loro voce. Perché prima ancora di essere un regista “contestatore” (quale sia in realtà il valore di questo termine è dilemma che sarebbe il caso di sviscerare con maggior tranquillità in un’altra occasione), Linklater è un uomo innamorato del proprio paese.

Non è un caso che la frase che sintetizza con maggior precisione l’intero senso del film sia quella pronunciata da Lou Taylor Pucci, uno dei giovani attivisti universitari ai quali si avvicina la protagonista (o meglio, una delle protagoniste: sulla coralità del progetto torneremo in seguito) Ashley Johnson: “se queste sono le leggi per essere davvero patriottici dobbiamo andare contro queste leggi”.
Non è difficile immaginare proprio il volto di Linklater dietro questa affermazione: il suo sguardo, pur profondamente critico verso gli Stati Uniti e la deriva liberticida che li sta ulteriormente intaccando, non emette mai una condanna senza appello verso i suoi concittadini. È così in Fast Food Nation, ma era già così in Slacker, Suburbia (forse il film che più si apparenta, anche solo per un mero discorso “politico”, a quest’ultima fatica), Waking Life; ed è proprio questa peculiarità di Linklater a permetterci di ritenerlo come uno dei pensatori più liberi, sinceramente indipendenti del cinema contemporaneo a stelle e strisce. Perché sarebbe grave non riconoscere una personalità autoriale a tutto tondo a questo quarantasettenne di Houston, un uomo che è stato disposto ad accettare i compromessi dell’industria (con esiti estremamente positivi, come in School of Rock, ma anche meno convincenti, vedere per credere Bad New Bears) pur di portare avanti un tracciato privato, individuale.
Perché la guerra allo standard cui facevamo riferimento poc’anzi Linklater la sta conducendo in seno all’industria: vedere il logo delle maggiori majors campeggiare sui titoli di testa di film quali Waking Life, Before Sunset, A Scanner Darkly, equivale a una boccata d’aria salvifica per tutti coloro che auspicano una sempre maggiore dose di coraggio nelle dinamiche produttive e distributive di casa a Hollywood.

Perché nella sua pressoché totale difformità da ogni altro prodotto a lui rapportabile (siamo di fronte a un documentario? E allora cosa ci fanno i volti di alcuni dei più celebri attori della nostra generazione?), Fast Food Nation è opera di un coraggio ammirevole: basterebbe prendere l’angosciante crescendo finale, con una Catalina Sandino Moreno in lacrime (splendida interpretazione la sua, la potreste ricordare anche in Maria Full of Grace e The Hottest State) di fronte all’intero processo di macellazione per comprendere come ciò con cui abbiamo a che fare non si apparenta nè con il lato più deteriore del movimento no-global (del quale fanno parte improvvide escursioni nel documentario come il sopravvalutato Fahrenheit 9/11 di Michael Moore) né con la visione che di solito si ha della macchina industriale americana.

Ben prima di essere un film contro (e nonostante la scossa post-punk data dalla presenza tra i produttori di quel Malcolm McLaren che fu il discutibile manager prima dei Sex Pistols e poi dei Bow Wow Wow, per poi buttarsi sulla carriera solista), Fast Food Nation è un film su: sull’America dei nostri giorni, sulle sue stupefacenti contraddizioni, sulla sua poliedrica ricchezza, sul suo ambiguo fascino. Ne sono paradigmi pressoché perfetti i vari siparietti che si susseguono senza interruzione di sorta, dal dissacrante dialogo tra Bruce Willis e Greg Kinnear fino all’inadeguata propensione all’azione dimostrativa dei giovani militanti. Ma guai a scambiare quello che è un patchwork visivo sapientemente orchestrato per un’acida satira del potere: chi ha parlato di film “esilarante” non ha in nessun modo capito da cosa sono agitate le acque del cinema di Linklater. Si potrà sorridere, forse, ma la mano del regista non ha timore di mostrarsi chirurgica e spietata quando è necessario: non c’è dissolvenza, non c’è stacco della macchina da presa sulle gambe tranciate di netto dell’operaio messicano immigrato per venire sfruttato e deriso, né c’è alcuna censura preventiva nella già citata sequenza finale della macellazione.
Anche per questo ce la sentiamo di annoverare Fast Food Nation tra i documentari sugli USA più lucidi che ci sia stato dato modo di vedere ultimamente, pur trattandosi di fiction: perché c’è più (desiderio di) verità nell’artefatta scrittura linklateriana che in gran parte dei documenti dal vero dei nostri tempi. Attraverso una messa in scena corale, da sempre consona agli schemi mentali del cineasta (si vedano Slacker, dove una novantina di personaggi erano pedinati nel corso di una giornata, ma anche Dazed and Confused, Suburbia e Waking Life), ci è data l’opportunità di penetrare la dura corazza dell’America, di vederne in filigrana i pregi e i difetti, di osservare il mondo dai punti di vista più divergenti. E se anche la conclusione appare amara e priva di speranza, sappiamo che il cinema di Linklater continuerà a interrogarsi sugli Stati Uniti e sul motore che li guida, a velocità impazzita, verso un futuro che è allo stesso tempo sogno lucido, allucinazione drogata e semplice gesto d’amore.
Allo stesso tempo crediamo purtroppo che il suo esempio continuerà a rimanere incompreso agli occhi della critica… Ma a questo abbiamo oramai fatto l’abitudine.

ps. Segnaliamo a parte la bella fotografia di Lee Daniel e il complesso montaggio di Sandra Adair: il primo è alla sesta collaborazione con Linklater, la seconda alla tredicesima. Anche a loro due si deve parte della compattezza stilistica con cui aprivamo la disamina.
Info
Fast Food Nation, il sito ufficiale.
Fast Food Nation, la scheda su IMDB.
Il trailer originale di Fast Food Nation.
Richard Linklater parla di Fast Food Nation.
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