Slacker

Slacker non è solo il titolo che all’inizio degli anni Novanta rese celebre, almeno negli Stati Uniti d’America, il nome di Richard Linklater, ma è anche l’opera più cristallina e chiara del panorama indie di quegli anni. Una radiografia di un paese, di uno stato (il Texas) e di un’intera generazione.

A Day in the Life

Slacker è un esperimento narrativo che segue una singola giornata della vita di alcuni giovani sfaccendati che si muovono nel “sottobosco urbano” di Austin, Texas. Nella quarantina di spezzoni che vedono protagonisti un centinaio di personaggi c’è spazio per scene di vita, aneddoti, confronti, riflessioni. [sinossi]

Appare indicativo, e anche per nulla sorprendente, come Slacker sia un film praticamente sconosciuto, in Italia e in gran parte dell’Europa, mentre nel corso degli anni sono assurti al ruolo di cult movie i vari Smoke/Blue in the Face di Wayne Wang (e Paul Auster), pur prodotto sotto il cappello della Miramax, Mosche da bar di Steve Buscemi, Si gira a Manhattan di Tom Di Cillo. Per non parlare di Clerks di Kevin Smith, Kids di Larry Clarke e Gummo di Harmony Korine, Doom Generation di Gregg Araki. E poi i film di Lodge Kerrigan – Clean, Shaven se ne andò in Un certain regard a Cannes, Claire Dolan approdò addirittura in concorso –, Todd Solondz, il successo di botteghino de I soliti sospetti, lo slittamento verso l’industria delle major di piccoli, medi e grandi indipendenti quali i fratelli Coen, Spike Jonze, Paul Thomas Anderson, Gus Van Sant, Quentin Tarantino e Robert Rodriguez. Pochi gli “irriducibili”, intenzionati a non essere assorbiti dai giganti produttivi, e destinati per questo in ogni caso a rimanere marginali: tra loro John Sayles, ovviamente, ma anche i già citati Clarke, Korine e Araki. E infine il curioso, curiosissimo caso di Richard Linklater, il regista che è passato da piccole produzioni indipendenti sia in proprio che seguendo il vento – breve, e con poca brezza in poppa – di InDigEnt, che gli diede la possibilità di creare il gioiello Tape nel 2001, fino a operazioni perfettamente integrate nel sistema, da School of Rock a Bad New Bears.

Nel corso degli anni Novanta Linklater si fece notare come uno dei padrini del nuovo indie-movie a stelle e strisce, spesso prodotto già con la garanzia del cappello protettivo della distribuzione di una major e ancor più spesso “mascherato” dalle stesse major e venduto come film indipendente al pubblico: un discorso valido per esempio per i mattatori del box office Singles – L’amore è un gioco di Cameron Crowe (a produrre è la Warner Bors., con quasi 20 milioni di dollari di incasso solo sul mercato interno) e Giovani, carini e disoccupati di Ben Stiller, prodotto dalla Universal e in grado di incassare oltre trenta milioni di dollari a livello mondiale. Essere indipendenti non equivale più a muoversi nell’off-hollywood, ma diventa un valore estetico e narrativo: storie minimali, spesso ambientate in periferia, utilizzo del bianco e nero, una colonna sonora post-punk e grunge, ma soprattutto la messa in mostra di un approccio alla sceneggiatura in cui il dialogo assume una posizione prioritaria. I fratelli minori di Jim Jarmusch, Hal Hartley e Steven Soderbergh – un altro autore perfettamente in grado di muoversi fuori e dentro l’industria senza perdere mai lucidità – affrontano le limitazioni del budget, ancor più evidenti in una fase storica in cui a dominare lo scenario è ancora la pellicola 35mm, ricorrendo a dialoghi serrati, il più possibile brillanti. Sono loro, ancor più del montaggio, a donare ritmo alla maggior parte dei titoli prodotti in quegli anni. Come detto Linklater aderisce a questo schema in quello che è il suo primo successo internazionale, Prima dell’alba, prodotto dalla sua Detour Filmproduction con il contributo tra gli altri della Columbia Pictures. Già, la Detour Filmproduction…
Occorre compiere un balzo a ritroso nel tempo per comprendere il ruolo svolto da Linklater e da Slacker all’interno dell’immaginario statunitense. Nel 1985 Linklater, insieme a Lee Daniel, Louis Black, Chale Nafus e Charles Ramirez-Berg, fonda l’Austin Film Society: lo scopo è quello di portare nella capitale del Texas film stranieri, in particolar modo europei e orientali, e di dare spazio a tutte le voci al di fuori del mainstream. Uno dei primi contributi indipendenti è proprio dello stesso Linklater, che gira un piccolo cortometraggio documentario dal titolo Woodshock, dedicato all’omonimo festival musicale della città. Il passaggio successivo è la fondazione della Detour Filmproduction, che trae ispirazione da Detour di Edgar G. Ulmer – gigante del microcosmo b-movie post-bellico – e che “serve” a Linklater per il suo primo lungometraggio completamente autoprodotto, It’s Impossible to Learn to Plow by Reading Books, in cui si occupa di ogni aspetto tecnico del film. Lo scopo dichiarato è quello di dimostrare che è possibile fare cinema senza muoversi dal Texas: nessun sogno della California, nessuna aspirazione a entrare a far parte dell’ingranaggio degli studios. La volontà ferrea invece di rimanere non solo “indipendenti”, ma anche di rivendicare lo spirito e la realtà di un territorio, di una popolazione, di una subcultura statunitense.

Solo avvicinandosi a questo stato d’animo è possibile arrivare a comprendere nel profondo il cinema di Richard Linklater. E il modo migliore per sentire questo mood è senza dubbio abbandonarsi alla visione di Slacker. Slacker nasce da un esperimento, quello di orchestrare un racconto corale senza che nessun personaggio avesse un background o uno sviluppo nel corso del film. Linklater tira la corda fino allo stremo, arrivando a mettere in scena un centinaio di personaggi senza che uno solo di loro appaia in due sequenze distinte del film. I legami narrativi sono solo ed esclusivamente due, destinati a diventare nel giro di breve tempo tra i passaggi obbligati della poetica del regista: il tempo e lo spazio. Il primo, che qui si articola attraverso le 24 ore di una giornata, è forse l’elemento più caratteristico dell’intero corpus autoriale di Linklater, come dimostreranno già gli immediatamente successivi La vita è un sogno, Prima dell’alba e Suburbia, tutti e tre destinati a svolgersi in un arco di tempo che va dal giorno alla notte. Eppure se i titoli successivi avvinghiano ancora il concetto di tempo allo sviluppo narrativo classico, puntando – anche percorrendo vie trasversali e alternative – al raggiungimento di un climax emotivo, Slacker si fa beffe di quasiasi standard, e non prende neanche in considerazione l’adesione a uno schema classico. Gli spettatori si muovono attraverso Austin passando da un personaggio all’altro, da una discussione lasciata a metà all’altra, da un delirio schizoide all’altro. Senza interruzione, senza soluzione di continuità. Come sarà un decennio più tardi con Waking Life, anche Slacker non accetta la prassi e al “racconto” preferisce il “viaggio”. Uno spostamento spaziale – pur sempre all’interno dei confini di Austin – che è spostamento ideale, ipotesi di rinnovamento continuo, di palingenesi, di uno spaesamento che è visto solo in forma positiva, accrescitiva, cognitiva, dialettica.
Slacker coglie nel segno là dove la maggior parte dei suoi epigoni nel corso degli anni Novanta si perderanno: Linklater non articola un film dialogico, ma dialettico. Per questo non asseconda il decennio della Generazione X, come faranno in troppi (anche partorendo opere compiute, sia chiaro), ma ne anticipa e ne comprende in fondo le nevrosi, le paranoie, la reazione a un modello di capitalismo selvaggio e aggressivo che si è nascosto dietro la maschera dell’etica del lavoro. Un modello già globalizzato ed esportato in Occidente mentre a Berlino il muro veniva picconato e crollava, e con lui si spazzava via l’unico elemento reale di disturbo, la contrapposizione in blocchi. Nelle frenesie e nelle discussioni infinite tra amanti del complotto, millantatori che affermano di aver combattuto tra gli anarchici spagnoli, e coinquilini che si accorgono che uno di loro ha abbandonato la casa, c’è il tessuto connettivo di un’intera generazione, in Texas come a New York, a Londra come a Parigi, a Madrid o a Bologna. Slacker, senza mostrare altro che giovani che vagano per una città universitaria dall’alba – che si inaugura su un figlio che investe appositamente la madre, in un piano sequenza mirabile che già enuncia le ambizioni autoriali di Linklater – a notte fonda, tra un caffè e un concerto senza pubblico, riesce a raccontare l’occidente “giovane” di quegli anni. È il vagare di una gioventù che è sopravvissuta alla Guerra Fredda ma sta per essere triturata da ciò che verrà, e che sarà ancor di più ferale e crudele. E privo di protezioni. Una generazione che ha rigettato – almeno all’apparenza – lo yuppismo dei “baby boomer” per adottare un nuovo ritmo, un nuovo tempo. Per essere indipendenti, non solo nella “forma”, che è apparenza, ma nell’indole, nella filosofia. Off Wall Street. Off Hollywood.

Austin come piccola capitale del cinema, un’utopia. Una follia, forse, in cui Linklater ha però creduto e probabilmente crede ancora se è vero che i suoi film, anche quelli in cui le major investono del denaro, si strutturano ancora negli studi cittadini, creati dal regista e in cui è capitato anche James Benning quando Gabe Klinger girò l’interessante documentario Double Play, in cui li faceva incontrare/scontrare. Se la stragrande maggioranza dei registi non vede l’ora di prendere il primo treno per la California – un altro a far resistenza, un po’ più passiva, è Kevin Smith; non è un caso che Clerks prenda ispirazione proprio da Slacker – Linklater ha difficoltà a uscire dai confini dello stato della Stella Solitaria, e raccontando i suoi vicini, i suoi amici, i suoi concittadini e ovviamente se stesso è riuscito a comporre un quadro stratificato di un intero sistema di pensiero, e di un mondo che stava nascendo per morire probabilmente troppo in fretta.
Si accennava ai punti di contatto evidenti tra Slacker e Waking Life. Quei punti di contatto sono lì a certificare anche una sconfitta. La sconfitta di una generazione. Se nel 1990 per trovare quell’umanità, quel senso di disamore verso lo status quo, bastava uscire di casa con una Arriflex 16mm, appena undici anni più tardi quel medesimo viaggio lo si poteva affrontare solo nella fase onirica. La realtà è scomparsa ed è rimasta imprigionata in un sogno lucido, senza più sveglia, senza più materia tangibile. Così l’immagine “reale” viene trasfigurata attraverso il rotoscope in una forma dell’immaginario più prossima al cartoon. Il dialogo si fa rimbombo lontano, quasi fastidio. Le strade di Austin non sono già più quelle immortalate in Slacker, ma assomigliano ai quartieri lindi e pinti che voteranno in massa per George Bush figlio, nonostante l’opera di dissuasione portata avanti in modo solitario ed estemporaneo da Ethan Hawke in Boyhood, altro film sullo spazio e sul tempo. Sul Texas e su ciò che rappresenta lo svolgersi delle ore, dei giorni, dei mesi e degli anni.

Straripante e ricchissima opera che spiazza, diverte e arriva perfino ad angosciare, Slacker è un film irripetibile (venne girato con soli 23.000 $), ma allo stesso tempo è il caposaldo di un’armata che cercava indipendenza e ha trovato – nella maggior parte dei casi – il proprio spazio a Hollywood, in qualche modo tradendo la causa. Non è stato così per Richard Linklater, regista con ogni probabilità poco compreso soprattutto in Italia – ma non solo. Come si scriveva in apertura appare indicativo, e anche per nulla sorprendente, come Slacker sia un film praticamente sconosciuto, in Italia e in gran parte dell’Europa. Per rimediare, per fortuna, c’è sempre tempo.

Info
Il trailer di Slacker.
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