Sotto il sole di Satana

Sotto il sole di Satana

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Sotto il sole di Satana, adattamento del romanzo di Georges Bernanos, è senza dubbio il film più discusso ed eretico di Maurice Pialat. Palma d’Oro fischiatissima a Cannes nel 1987, è un’opera radicale e da riscoprire, una gemma preziosa che ragiona sul Male, sul dominio e sulla colpa.

Delirio di un curato di campagna

Donissan, un giovane curato di campagna profondamente religioso, percepisce in sé l’inadeguatezza al compito che lo aspetta e si infligge punizioni corporali che ne prostrano il corpo, cercando la verità e un percorso alla propria missione tra i fedeli. Si trova spesso a discutere con il suo superiore Menou-Segrais che ne ammira comunque la forza d’animo e la continua autocritica. La giovane Mouchette, che vive nel paese dove si trova la parrocchia di Donissan, frequenta uomini sposati e da uno di questi rimane incinta: lo uccide con una fucilata a bruciapelo ma l’omicidio viene scambiato per un suicidio… [sinossi]

Pochi film possono vantare il trattamento che ricevette Sotto il sole di Satana al Festival di Cannes del 1987. Nessuna Palma d’Oro, probabilmente, è stata mai così apertamente fischiata e contestata dalla platea, dagli invitati, dalla stampa francese e internazionale. Nella grandeur del cinema “alto” l’ossessivo curato interpretato da Gérard Depardieu venne considerato al pari di un’onta, una sfida alle pubbliche virtù solo a parole laiche. Il più eretico tra i film di Maurice Pialat, e uno dei pochi a muoversi all’interno dei regimi di una sceneggiatura ferrea, colpì in faccia i cinefili mondiali con la stessa ferocia e la stessa disperazione delle scudisciate che Donissan si autoinfligge ogni giorno, alla ricerca di una verità di Dio che gli sfugge con regolarità tra le mani. È davvero un peccato che l’unica reale fama di Sotto il sole di Satana sia legata proprio a quei fischi, a quei buuu di protesta: a trentuno anni di distanza da quei fatti la reazione del pubblico dovrebbe essere letta come un elemento di vanto, un fiore all’occhiello da mostrare nelle occasioni che contano. La stolida platea di Cannes, vestita in abito da cerimonia per attendere il giudizio della giuria – coraggiosissima, e capitanata da Ivo Livi in arte Yves Montand, comunista e anti-stalinista – certificò con il proprio comportamento il potere, l’oscuro e magmatico potere di un film che concepisce il sole come (quasi) tenebra, l’assoluto come relativo, la difesa dello spirito come difesa della carne. Del diritto dell’uomo alla Terra, e del suo perire. Del miracolo come atto non più solo della fede cieca, ma della fiducia.

Dopotutto non ha dubbi Donissan nell’affermare che “Satana è il principe di questo mondo. Ce l’ha tra le mani”. La terra brulla e aspra, dove i minatori devono affrontare chilometri a piedi nella notte o nelle prime ore dell’alba per tornare a casa, non ha più alcuno spirito divino a soffiare. Gli uomini sono abbandonati, soli e impauriti, incapaci di affrontare sia il mistero che la realtà, affascinati dall’uno e dall’altra e allo stesso tempo chiusi nelle loro piccole e grandi meschinità. Donissan è un super-uomo? No. Il suo miracolo, quello che tenta di compiere – inutilmente – con il cadavere della giovane Mouchette, che si è tagliata la gola nella disperazione di un senso di colpa che era già lì prima ancora che si macchiasse dell’omicidio di un suo amante, e che riesce invece con il neonato alla fine del film, non è di per sé un gesto sovrannaturale. Non è divino nel senso che non nasce direttamente dalla volontà di Dio. Una volontà che se esiste è ferale, crudele, del tutto disinteressata ai vizi e alle virtù delle umani genti (contrariamente a Satana, che vive e prospera invece tra le persone, respirandole, annusandole, tentandole senza neanche dover forzare troppo la mano). Il miracolo di Donissan è prettamente umano, di un uomo devastato che dona tutto se stesso a una causa già persa, quella di donare nuova fiducia spirituale al popolo. Un popolo che non comprende neanche ciò che gli viene detto a messa, visto che è ancora recitata in latino, e porge la bocca all’ostia solo come un rituale vuoto, replica infinita di uno schema che nessuno mette in dubbio. Uno schema borghese. Anche il mentore di Donissan e suo superiore, Menou-Segrais, pur colpito in profondità dagli sforzi e dalla rettitudine del parroco, non sa rinunciare all’agio borghese, alla sua casa accogliente e non fredda come quelle in cui vivono e muoiono i laici. Perfino la casa di Cadignan, l’amante di Mouchette che finirà con una fucilata nel petto – ma tutti scambieranno il gesto per suicidio –, appare fredda e vuota, inospitale, malata.

È interessante notare come Pialat scelga per se stesso il ruolo di Menou-Segrais. Già saltuariamente interprete tanto nei suoi film (è il padre di Sandrine Bonnaire in Ai nostri amori e l’isitutore in alcuni episodi del televisivo La maison de bois) quanto in quelli di colleghi come Claude Chabrol (Que la bête meure, 1969) o Jean Eustache (Mes petites amoureuses, 1974), si costruisce addosso la parte del “controllore” di Donissan incapace però di controllarlo fino in fondo anche perché di fatto convinto che il suo parroco abbia le idee a tratti più nette delle sue. Una sincera ammissione di amore per l’incontrollabile Depardieu, attore tra i preferiti di Pialat, come testimoniano Loulou e Police. Se in Sotto il sole di Satana il furore anarcoide che si respira con forza nella quasi totalità delle sortite registiche di Pialat appare maggiormente irregimentato non è per incapacità – o mancanza di volontà – del regista a distaccarsi con forza dalla matrice letteraria, il romanzo che Georges Bernanos diede alle stampe nel 1926. Anzi, è forse vero il contrario. È proprio l’accettazione di Pialat del punto di vista di Bernanos, la condivisione di una sofferenza eterna, il patimento per l’abbandono della Terra da parte della divinità, a legare in modo stretto il furore iconoclasta del regista con il testo di partenza. Così come il sole di Satana non può che essere la pallida imitazione del vero sole, anche il film di Pialat solo in apparenza accetta le (non) regole del rigore. In realtà la discesa di Donissan verso il bagliore della luce interiore, quella follia che è delirio ma anche improvvida saggezza, è l’ennesimo esempio di un caos brulicante in cui la forma assume il suo contorno più definito.
Viaggio al termine della notte in cui ogni tentazione deve essere ricacciata con una forza che l’uomo non sa di poter possedere, Sotto il sole di Satana è un bagliore improvviso, una saetta che colpisce il nero della notte dimostrando la possibilità di credere ancora nell’uomo, nella sua (im)potenza. La stessa im-potenza del cinema, dello sguardo, della ricerca disperata di una luce che non è mai sole, ma sua eufemistica imitazione.

Info
Il trailer di Sotto il sole di Satana.
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