Police

Interpretato da un gigantesco Depardieu, Police segnava nel 1985 l’approdo per Maurice Pialat a un cinema più controllato e curato dal punto di vista della messa in scena, senza però perdere per questo la spontaneità e l’inesauribile vivacità di dialoghi e situazioni. Alla Festa del Cinema di Roma per la retrospettiva dedicata al cineasta francese.

Un poliziotto a nudo

Mangin è un poliziotto brutale ma onesto, misogino e sensibile. Si innamora della ragazza di uno spacciatore, Noria, e il suo mondo va in crisi. [sinossi]

Comincia con un esplicito campo/controcampo Police di Maurice Pialat, film del 1985 proposto alla Festa del Cinema di Roma per la retrospettiva dedicata al cineasta francese. Una grammatica visiva decisamente insolita in Pialat, eppure indicativa di una nuova fase del suo cinema – molto attenta dal punto di vista della messa in scena – che lo avrebbe portato fin quasi all’apparente estetizzazione di Sotto il sole di Satana (1987), per poi ‘riscardinarsi’ di nuovo con l’assoluta libertà di Van Gogh (1991). Pialat comunque usa – tra l’altro solo nella scena iniziale del film – il campo/controcampo in maniera decisamente eccentrica, lasciando sovente in voice over le battute dei personaggi. Ma, oltre al segno di una esibita scelta tecnico/stilistica (di solito la macchina da presa di Pialat si dà come oggettiva, come invisibile, anche se non ‘nascosta’ ai personaggi/attori, ché anzi spesso quasi vi guardano dentro), l’utilizzo di questa retorica nell’incipit di Police ha anche un valore simbolico ben preciso: quello di connotare come due mondi totalmente separati e contrapposti l’ambiente poliziesco (incarnato dall’ispettore Mangin, interpretato da Gérard Depardieu) e l’ambiente criminale (incarnato dall’uomo che viene trattenuto in questura per questioni di droga). Sono due realtà distinte e separate in maniera netta – ci dice Pialat. O, almeno, così crede l’ispettore e così vuole farci credere il regista, visto che di lì in poi le cose cambieranno molto, tanto da far sprofondare Mangin/Depardieu in una storia d’amore con Noria, la donna di uno spacciatore (interpretata da Sophie Marceau). E tanto da condurlo a fare da tramite tra la ragazza e l’accolita di spacciatori cui Noria era legata, restituendo a questi ultimi dei soldi che lei aveva sottratto a loro.

Ciò però non vuol dire che Police vada inteso come la parabola di un poliziotto che, innamoratosi di una femme fatale, finisce per venire meno ai dettami della legge e del distintivo. Tutt’altro. Il Mangin di Depardieu è infatti decisamente insopportabile soprattutto quando svolge i suoi interrogatori con metodi poco ortodossi – picchia anche Noria, in prima istanza – o anche quando si porta a letto la prostituta interpretata da Sandrine Bonnaire (festeggiando il fatto di averla liberata dal suo magnaccia), oppure quando ci prova solo per noia con la giovane aspirante commissario. È, invece, proprio nel momento in cui si innamora di Noria/Marceau che il suo personaggio acquista finalmente umanità e ci si svela anche nelle sue debolezze.
È un milieu amorale quindi quello descritto in Police, dove l’avvocato dei malavitosi (Richard Anconina) è il primo a tenere i piedi in due staffe, uno in questura dove se la canta e se la ride con Mangin e uno nel bar frequentato dai marocchini spacciatori dove beve con loro e organizza trame tutt’altro che legali. Un ruolo che potrebbe anticipare a suo modo il Sean Penn di Carlito’s Way, privo però degli eccessi melodrammatici di De Palma. Eccessi che sono tutt’altro che disprezzabili, anzi, ma che sono totalmente alieni al cinema di Pialat. Perché in Police non vi è nulla di epico e nulla di esplicitamente romanzesco. Si può dire piuttosto che Pialat abbia trasportato il suo tipico modo di fare cinema – estremamente realistico, confinante con il cinema documentario – in un contesto poliziesco e noir, senza snaturarsi e anzi dimostrando che si può fare (avvincente) cinema di genere anche senza musica, senza inseguimenti, senza troppe sparatorie, senza complicate trame di indagini che poi bisogna spiegare allo spettatore. Police, al contrario, si regge su pochissimi elementi: un poliziotto burbero violento e bonaccione, la donna del boss bella e misteriosa quanto basta, dei soldi rubati e il boss che non si riesce a far uscire di prigione e che quindi viene dimenticato e spedito a Marsiglia.

Quel che rende Police un film straordinario è innanzitutto la dinamica recitativa, condotta da un Depardieu in stato di grazia, capace di gigioneggiare senza nuocere al film e anzi arricchendolo, tra l’altro supportato egregiamente anche dagli altri attori, dalla stessa Marceau all’avvocato interpretato da Anconina.
Complice poi la fotografia di Luciano Tovoli, Police è il primo film di Pialat con una estetica visiva ben precisa, tutto virato sul blu delle strade notturne e di quell’effetto notte che tanto sarebbe piaciuto a Truffaut, e che – morto durante le riprese – viene omaggiato in un momento in cui Depardieu va dal giornalaio. Ma la bellezza del cinema di Pialat non la si ritrova mai veramente nell’immagine, nella costruzione dell’inquadratura, quanto nella immediatezza del set, nel farci sentire il set come cosa viva, come ribollire di sentimenti incontrollati e inaspettati, capaci di riversarsi ancora oggi intatti in tutta la loro vitalità.

Info
La pagina Wikipedia dedicata a Police.
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