Mes petites amoureuses

Mes petites amoureuses

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Nel filone francese del racconto dell’infanzia e dell’adolescenza, da Jean Vigo a Truffaut passando per Maurice Pialat, si inseriva anche Jean Eustache nel 1974 con Mes petites amoureuses, scegliendo come punto di vista privilegiato la scoperta del corpo e della sessualità, per un film malinconicamente erotico. Al Torino Film Festival nella retrospettiva dedicata al cineasta francese.

Un’erezione triste

Eustache risale al tempo tra infanzia e adolescenza, specchiandosi nello sguardo silenzioso e già «altrove» del protagonista Daniel: fra Pessac, dove vive con la nonna, e Narbonne, dove non riesce a ricongiungersi davvero con la madre, e che lascia in lui un vuoto mai raccordato. Nello splendido colore di Nestor Almendros, con Ingrid Caven nel ruolo della mamma, un’opera sul mistero dell’infanzia e del cinema, rimasta a torto sconosciuta e incompresa. [sinossi, dal sito del Torino Film Festival]

Venuto dal successo, appena l’anno precedente, di La mamain et la putain, con cui aveva vinto il Gran Prix a Cannes, Jean Eustache girava nel 1974 l’unico film sostanzialmente normale della sua filmografia: Mes petites amoureuses. E per normale si intende produttivamente più strutturato rispetto ad altri suoi lavori, di durata più o meno convenzionale (sulle due ore, a fronte delle quasi quattro ore di La mamain et la putain e a fronte dei tanti corti e mediometraggi) e dal tema abbastanza classico, in particolare nell’ambito del cinema francese. L’infanzia e l’adolescenza, la loro innata turbolenza, la loro ritrosia ad accettare le regole del mondo adulto e l’intemerata tendenza alla ribellione sono infatti i fulcri attraverso cui passano le opere di alcuni dei più grandi cineasti francesi, dal Jean Vigo di Zero in condotta al Truffaut de I 400 colpi, fino ad arrivare – solo per citare i maggiori, e per non parlare del cinema di Bresson – al Maurice Pialat de L’enfance nue, recuperato proprio pochi mesi fa alla Festa del Cinema di Roma. E Pialat – a sottolineare una filogenitura e uno stretto rapporto tra i due cineasti – appare anche come attore in Mes petites amoureuses, nei rozzi panni di un amico del ferramenta da cui lavora il giovane protagonista, un personaggio tanto insopportabile da imporre al ragazzino la declamazione dell’alfabeto e da arrivare a correggerlo e smentirlo. In questa scena, dunque, Pialat interpreta il classico carnefice delle giovani generazioni, colui che – come a volte capita che ci siano di questi canuti soloni – le ritiene consustanzialmente inappropriate a imparare qualsivoglia lezione.

Ma, al di là della deviazione pialatiana, ciò che davvero sostanzia Mes petites amoureuses, sempre rispetto al campo del romanzo di formazione, è il fatto di declinare la questione della crescita esclusivamente in base alla prospettiva della scoperta del corpo e della sessualità. È questa, sin dall’inizio del film, l’unica ossessione del protagonista Daniel, sin da quando nella sequenza in chiesa durante la comunione ha un’erezione nel camminare dietro a una sua coetanea pudicamente vestita di bianco. E da qui in poi, timidamente o meno, pervicacemente o per caso, proverà ad approcciare delle ragazzine.
Il corpo – e la sua espressione – è infatti il nucleo del discorso, innanzitutto nel tentativo di metterlo in relazione e in contatto con i corpi femminili. E, in tal senso, è magistrale la sequenza del cinema dove, mentre viene proiettato Pandora (film del ’51 di Albert Lewin) e dunque Ava Gardner scatena tutta la sua dirompente carica sensuale sullo schermo, Daniel comincia a baciare una ragazza seduta davanti a lui, imitando un suo vicino di posto. In questa scena perciò la scoperta erotica – è, questo, il primo bacio che Daniel dà, e riceve – è avallata dalla sensualità del cinema: e dunque sesso e cinema arrivano a coincidere per un identico sentimento di proibito, di tentazioni promiscue, di oscurità e di mistero, di sguardo e non sguardo (Daniel non riesce a vedere in volto la ragazza con cui si bacia).
In questa scoperta del corpo assume però un valore fondamentale anche un’altra forma di spettacolo, in questo caso dal vivo: uno spettacolo circense. Insieme a sua nonna, che lo ha accompagnato, Daniel assiste alle intemerate dimostrazioni di inscalfibilità del corpo di gomma di un acrobata/mangiafuoco: questi si infila in bocca coltelli e fucili e poi si sdraia su del vetro senza subire alcuna lesione. E si tratta di una scena a suo modo sconvolgente, estremamente realistica, dove veramente si teme per la vita del performer, anche perché si capisce che tutto ciò è successo davvero e non è stato falsificato per esigenze cinematografiche. Questa dunque è una lezione: per noi spettatori che assistiamo, allibiti, al reale rischio della vita – come raramente capita di vedere al cinema – e che dunque possiamo godere di un ennesimo esempio di cinema moderno, quel cinema capace di mostrare degli istanti di verità; ma è una lezione anche per Daniel, che poi prova a fare le stesse cose anche lui, tentando goffamente di rendere innocuo il pericoloso esperimento. Dopo il mezzo fiasco ottenuto, Daniel non ci proverà di nuovo, ma ha imparato una cosa – e noi con lui – che per il corpo passa tutto. O, forse, per lo sguardo. O, meglio, per uno sguardo/corpo, uno sguardo corporeo, mai semplicemente voyeuristico, ma sempre materico, ansante e partecipe, come quando Daniel spia la ragazza che, ogni volta insieme a un uomo diverso, si bacia sempre davanti alla vetrina del ferramenta in cui il ragazzino ha cominciato a lavorare. Lei sa di essere guardata da lui, e dunque il turbamento che ne prova Daniel è fortissimo, tanto che – per certi versi – spiare/guardare è già scopare.

Questo discorso sullo sguardo e sul corpo, sul loro intreccio inestricabile, lo si ricava anche dalla stessa costruzione drammaturgica di Mes petites amoureuses: la voice over di Daniel sembra infatti quella di chi guarda il film insieme a noi e lo commenta, seduto a qualche poltrona da noi. È, questo, un uso della voce fuori campo estremamente inconsueto e, benché usata con moderazione, appare estremamente significativo il fatto che Daniel si ri-guardi insieme a noi e faccia delle piccole riflessioni/confessioni a mezza bocca. La voice over non viene usata, infatti, per coprire delle ellissi narrative – e, come nel cinema di Pialat, di ellissi ce ne sono e non hanno bisogno di alcuna sequenza di intermezzo – quanto per commentare i propri gesti, i propri sguardi, i propri incontri, come quella ragazza che Daniel incontra per strada e che lo saluta, e lui ci dice che lei già diverse volte lo aveva scambiato per qualcun altro, chissà per chi, forse per un suo ex amante.
Detto questo, e al di là dell’etichetta di film normale, resta il fatto che Mes petites amoureuses rientra pienamente nella frastagliata filmografia di Eustache. Lo testimonia anche la componente autobiografica, al solito centrale, anche se meno esplicita che in altri casi. Il film è ambientato a Pessac, paese natale di Eustache, e i rapporti familiari che intesse Daniel sono molto simili a quelli avuti da Eustache durante l’infanzia, vale a dire un freddo distacco con la madre e una stretta relazione con la nonna, che d’altronde – la vera nonna di Eustache – è la protagonista assoluta di quella straordinaria testimonianza di memoria cinematografica che prende il titolo di Numéro Zéro (1971).

Info
La scheda di Mes petites amoureuses sul sito del Torino Film Festival.
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