Una vita violenta

Una vita violenta

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Il film sulla lotta armata che in Italia nessuno ha il coraggio di fare. Una vita violenta, secondo lungometraggio di Thierry de Peretti, racconta – con rigore e senza indulgenze – ideali, egoismi e decadenze dell’indipendentismo corso alla fine degli anni Novanta, scegliendo per protagonista un giovane che torna a combattere dopo la morte di un amico.

Noi, dolce parola. Noi credevamo

Nonostante la minaccia di morte che pesa sulla sua testa, Stéphane decide di tornare in Corsica per partecipare al funerale del suo migliore amico e compagno d’armi, Christophe, ucciso il giorno prima. Per Stéphane è l’occasione per ricordare gli eventi che hanno condotto lui, un intellettuale piccolo borghese di Bastia, a passare dalla piccola criminalità alla radicalizzazione politica e alla clandestinità. [sinossi]

Prima o poi forse sarà possibile fare anche in Italia un film come Una vita violenta, secondo lungometraggio di Thierry de Peretti presentato nel 2017 alla Semaine de la Critique e adesso in uscita da noi. Un film che parli della lotta armata di estrema sinistra – e noi, insieme alla Germania, siamo coloro che in Europa hanno avuto in tal senso una vicenda più corposa rispetto a quella degli altri paesi – e che lo faccia senza indugiare nel colpevolismo postumo (come accadeva in Prima linea di Renato De Maria) o nell’odio viscerale acritico (come è successo, più di recente, in Dopo la guerra, film a proposito del quale abbiamo avuto modo di parlare con il giornalista ed ex brigatista Paolo Persichetti). Il punto non è dire se fosse giusto o sbagliato, perché è ovvio che fosse sbagliato, il punto è cercare di capire perché certe scelte vennero fatte in un certo periodo storico e non in un altro e perché delle persone, dei militanti, animati da un ideale di eguaglianza sociale, siano arrivati a travisare completamente l’ideologia e, invece di aprirsi al collettivismo, si siano rinchiusi nell’individualismo armato che li ha portati a deragliare del tutto, sganciandosi sempre più dalla realtà. Non è questione di severità o di giudizi postumi, e non è neppure in ballo la solita manfrina secondo la quale bisogna pensare prima di tutto ai parenti delle vittime; piuttosto, è necessario interrogarsi su una fase fondamentale della nostra storia senza zavorrarla con lo scandalismo contemporaneo, secondo il quale è già osceno che a un ex brigatista sia permesso di parlare in pubblico.

Dopo Apache, che rifletteva sulla riappropriazione del territorio corso da parte dei turisti, Thierry de Peretti affronta un altro nodo riguardante l’isola in cui è nato e cresciuto, le volontà indipendentistiche della Corsica nei confronti della Francia che, in particolare tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila, si sono manifestate attraverso il gruppo Armata Corsa, di ascendenza marxista e anti-coloniale (che vedeva, dunque, nella Corsica un’altra delle colonie francesi), sconfitto con la oscura complicità tra mafia, Stato e polizia; questo almeno ci viene detto nel film, ma non ci sorprende, vista la radicata alleanza della mafia con certe nostre istituzioni che un tempo venivano dette deviate.
Quella che mette in scena de Peretti è la parabola di un giovane intellettuale piccolo-borghese di Bastia, Stéphane, che comincia con il nascondere delle armi, poi finisce in carcere dove si radicalizza e studia i classici del comunismo, quindi entra nell’organizzazione e comincia a partecipare a una serie di azioni armate, fino all’inevitabile accerchiamento cui si trova costretto.
E in questa parabola Una vita violenta riesce a cogliere tutti i segni del deragliamento, della scissione inevitabile tra idea e azione, tra i discorsi che si fanno in carcere (bellissimo il piano-sequenza in cui Stéphane, insieme ad altri, ascolta le parole del leader dell’organizzazione mentre è in corso nel cortile della prigione una partita di calcio inquadrata in primo piano, per una scissione tra l’audio del confronto politico e l’immagine della partitella), discorsi che poi non reggono al confronto dei fatti, oppure dalla richiesta di un imprenditore locale di fare vendetta privata su un suo concorrente (spingendo i membri dell’organizzazione a operare in tipico stile mafioso), a umilianti litigi da bar, fino alla fatale decisione di uccidere un contadino nonostante la contrarietà di alcuni di loro, e infatti c’è chi poi vomita, disgustato. E non è un caso che la lotta armata indipendentista trascolori nei metodi mafiosi, pur trovandosi a essere contrapposti gli uni con gli altri; lo stesso, d’altronde, è successo in Italia a partire dall’inizio degli anni Ottanta, con l’omicidio-vendetta di Roberto Peci, fratello di Patrizio, odiato perché aveva denunciato i suoi compagni. D’altronde in Una vita violenta la polizia e le istituzioni statali non esistono, non si vedono, e gli stessi mafiosi appaiono solo all’inizio – in una sequenza di sconcertante violenza – e poi si nascondono nell’ombra, molto più abili a muoversi nella clandestinità rispetto ai protagonisti del film.

Lo stesso punto di partenza di Una vita violenta è segnato da una volontà auto-distruttiva, di annichilimento, visto che Stéphane decide di tornare in Corsica (dopo essere fuggito nella Francia continentale perché sotto attacco della mafia), quando viene a sapere che un suo amico e compagno di lunga data è stato ucciso. E resta decisamente nella memoria l’inseguimento notturno con sparatoria annessa, in cui Stéphane fugge e spara proiettili alla cieca: il nemico dov’è? qual è il vero obiettivo da colpire per sganciarsi dalla Francia? Stéphane e gli altri non lo sanno, non possono saperlo, perché il potere è onnipresente in quanto fantasmatico, incorporeo.

De Peretti ci racconta tutto questo con uno stile rigoroso e austero, senza mai cadere in facili schematismi, tanto che gli stessi discorsi politici appaiono convincenti e persino naturali perché sono fatti senza usare slogan vetusti ma vissuti nella pelle e nei corpi dei protagonisti. Lavorando poi su una narrazione ellittica e su uno stile di ripresa spesso distante dai suoi personaggi (sono rari i primi piani, mentre sono frequenti i totali a macchina fissa), uno stile che sta quasi a indicare la volontà e il desiderio vano dei militanti di nascondersi alla stessa camera, de Peretti sceglie di dilazionare pian piano informazioni e relazioni: da un lato ciò serve a spiazzarci (come nell’esplosione di violenza iniziale), dall’altro si dà conto della difficoltà di penetrare quel mondo, dall’altro ancora – più banalmente narrativo – si viene a costruire una progressiva stratificazione che fa sì ad esempio che solo ad un certo punto verremo a scoprire quale è stato il ruolo della madre nell’educazione del protagonista (e, in tal senso, è fondamentale un altro piano-sequenza, un tè tra le madri dei militanti) e che fa sì anche che una vera e propria dichiarazione d’intenti arrivi solo alla fine, in voice over. E resterà nella memoria anche l’interprete protagonista, l’esordiente Jean Michelangeli, il cui stesso fisico appare inadatto a impugnare delle armi, la cui presenza scenica – è sempre leggermente ridicolo e patetico con quel marsupio continuamente indosso – mal si attaglia, volutamente, alle azioni in cui si trova coinvolto; un grigio anti-eroe, un giovane qualunque che ha fatto una scelta estrema e orgogliosamente suicida.

Info
Il trailer di Una vita violenta.
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