Intervista a Joe Odagiri

Intervista a Joe Odagiri

Uno dei volti più riconoscibili del cinema giapponese contemporaneo (insieme a Tadanobu Asano), Joe Odagiri ha più volte lavorato con autori come Hirokazu Kore-eda, Kiyoshi Kurosawa, Sion Sono, Seijun Suzuki e, fuori dal Giappone, Kim Ki-duk. Ha inoltre partecipato a tanti film di successo come In the Pool e Adrift in Tokyo di Satoshi Miki, visti anni fa al Far East Film Festival, Mushishi di Katsuhiro Otomo, presentato a Venezia, House of Himiko, Shinobi, The Great Passage, oltre a vari j-dorama. Dopo aver già diretto un film, Looking for Cherry Blossoms, nel 2009, torna ora, dopo dieci anni, dietro la macchina da presa, con They Say Nothing Stays the Same, incentrato sulla figura di un barcaiolo di fiume. Abbiamo incontrato Joe Odagiri alle Giornate degli Autori di Venezia 76, dove quest’ultimo suo film è stato presentato.

Per la seconda volta giri un film da regista, dopo dieci anni da Looking for Cherry Blossoms. Trovo molte analogie tra le due opere, prima di tutto nel ruolo della natura, là i ciliegi in fiore, simbolo supremo della cultura giapponese, qui le rive di un fiume. Inoltre in entrambi i casi appare un conducente, un tassista e un barcaiolo. Stai seguendo un tuo processo autoriale?

Joe Odagiri: L’altro è un film più breve, di circa 70 minuti. In realtà è interessante perché non ci ho mai pensato, che il primo e il secondo si potessero collegare. Ma, come hai detto, è vero che lo scopo dell’altro, di Looking for Cherry Blossoms, era di mostrare la bellezza giapponese; mentre questo mostra ancora meravigliose immagini giapponesi ma più generiche. Forse questo è uno dei motivi per cui ho voluto fare questi film, ho voluto far vedere la bellezza del Giappone al pubblico.

A ciò si aggiungono immagini del folklore nipponico come le volpi.

Joe Odagiri: Mi sono basato sulla storia della volpe che è molto interessante. L’ideogramma cinese per volpe è molto simile a quello della solitudine, per cui percepiamo davvero la solitudine pensando alla volpe quando leggiamo il carattere cinese. Noi giapponesi lo percepiamo davvero in quel modo, per cui per noi volpe significa davvero quello, cioè solitudine, e sono così strettamente in relazione. Si intreccia con la dimensione mitologica, folkloristica o forse favolistica, non saprei bene, che riguarda ogni volta che qualcuno è passeggero sulla barca. Non c’è dramma, non c’è una ragione drammaturgica, ma voglio indugiare sul passaggio all’altra sponda del fiume, voglio mostrarlo con calma e per bene.

Nella nostra cultura il traghettatore ci riporta al Caronte che trasbordava le anime nell’Ade. Anche nella cultura giapponese il passaggio da una sponda all’altra del fiume simboleggia la transizione tra vita terrena e aldilà. Nel momento in cui metti in scena anche il trasporto di un cadavere, ti rifai a queste mitologie?

Joe Odagiri: No, ho più un’idea di tornare a un mondo pre-moderno. Molto tempo fa, in Giappone e anche in altri paesi, la situazione era diversa da quella del giorno d’oggi, dove ci sono ponti e automobili, che permettono di attraversare facilmente e andare dall’altra parte del fiume. Non ci pensiamo ma molto tempo fa il ruolo del barcaiolo era fondamentale, era un elemento meraviglioso che riceveva la gratitudine delle persone del luogo. Ci siamo lasciati dietro tutto questo e oggigiorno non ci pensiamo più; questo è stato il mio vero punto di partenza per realizzare questo film.

Hai lavorato due volte con Kim Ki-duk, in Dream e Human, Space, Time and Human. Mi sembra che They Say Nothing Stays the Same sia debitore della sua poetica. Penso in particolare al suo film L’isola e alla figura femminile che irrompe improvvisamente generando scompiglio. Confermi?

Joe Odagiri: Non ne ero conscio, è interessante. Ci conosciamo molto bene, abbiamo sempre provato una forte sintonia, con lui abbiamo parlato di cinema per tantissimo tempo. Può esserci qualcosa di simile nelle nostre opere.

Nel cinema giapponese la figura della barca per antonomasia è quella della scena della traversata del nebbioso Lago Biwa ne I racconti della pallida luna d’agosto di Kenji Mizoguchi. Avevi in mente questa immagine quando hai realizzato il film?

Joe Odagiri: Questo è un punto interessante perché in realtà non ho mai pensato a I racconti della pallida luna d’agosto. Dopo aver realizzato They Say Nothing Stays the Same, l’ho guardato e ho pensato: «Ci sono davvero tante cose in comune!». È stato girato circa sessant’anni fa ed è interessante perché mi pare che abbia vinto anche un premio qui alla Mostra di Venezia. E ora io sono qui, ecco le coincidenze! Quando ho scritto il copione e ho realizzato il film non avevo idea di tutto ciò, ma poi ho visto tutte quelle somiglianze.

Qual è l’epoca storica in cui è ambientato il film? I costumi fanno pensare all’epoca Edo, ma sono quelli di contadini, mentre la parte finale sul ponte sembra inequivocabilmente nell’epoca Meiji.

Joe Odagiri: Per il Giappone, tra l’epoca Edo e l’epoca Meiji, ci sono stati molti cambiamenti drammatici. Da quel periodo abbiamo iniziato ad accettare la cultura occidentale nelle nostre vite e i nostri stili di vita sono completamente cambiati. Ho quindi concepito la costruzione di un ponte come il fatto di portare una nuova cultura al popolo giapponese. Non volevo che fosse ambientato nella società moderna, per cui è più in epoca Meiji, circa centocinquanta anni fa ed è molto importante che sia in quel periodo.

Info
Il trailer di They Say Nothing Stays the Same.

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