Lettera a Franco

Lettera a Franco

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Lettera a Franco (Mientras dure la guerra), ritorno in Spagna di Alejandro Amenábar a quindici anni di distanza da Mare dentro, è il racconto dell’inizio della Guerra Civile attraverso gli occhi di Miguel de Unamuno. Un’opera ricca, intellettualmente stimolante, che cede sotto il profilo estetico, appiattendosi su una resa visiva prossima alla fiction televisiva. Al Torino Film Festival nella sezione Festa Mobile.

Il conformista riluttante

Spagna, estate 1936. Il celebre intellettuale Miguel de Unamuno, rettore dell’Università di Salamanca, si schiera pubblicamente in favore del colpo di Stato militare antisocialista, ritenendolo un argine all’odiato bolscevismo. Dopo la presa di potere del generalissimo Francisco Franco e in seguito all’incarcerazione di alcuni suoi cari amici, de Unamuno capisce di aver dato il suo appoggio a qualcosa di mostruoso, che assomiglia in tutto al nazi-fascismo… [sinossi]

Tre film in dieci anni. Il premio Oscar Alejandro Amenábar torna dopo Agora (2009) e Regression (2015) per raccontare un momento storico ferale del suo Paese d’adozione e una figura controversa, quella di Miguel de Unamuno (interpretato da Karra Elejalde), scrittore, intellettuale e rettore dell’Università di Salamanca. Un film scomodo e ambizioso, Mientras dure la guerra (in italiano Lettera a Franco), presentato al Torino Film Festival nella sezione Festa Mobile. Scomodo perché la presa del potere di Francisco Franco e il ritorno della monarchia non vengono contrapposte – come quasi sempre accade – a un personaggio dalla chiara visione comunista, socialista, ma dialetticamente messe in contatto con una figura dai forti chiaroscuri, ovvero un intellettuale repubblicano ma inizialmente “collaborazionista” come de Unamuno. Non un García Lorca, insomma, martire ed eroe, ma un cattedratico che – nonostante il famoso discorso contro il fascismo con cui si chiude il film – appoggiò l’ascesa dei militari contro “i rossi”, ritenendoli preferibili al bolscevismo. Amenábar, intelligentemente, sceglie un protagonista dalle posizioni ambigue, che dapprima non scorge proprio il pericolo fascista, e caratterizzato anche da un istinto di preservazione prossimo alla codardia. Non è un personaggio senza macchia e senza paura, il de Unamuno di Lettera a Francosebbene nel finale arrivi la redenzione. Ma scomodo il film lo è anche perché, chiaramente, il cileno naturalizzato spagnolo Amenábar vede nella monarchia ripristinata immediatamente da Franco uno dei simboli del conservatorismo spagnolo, uno degli impedimenti più pesanti per oltrepassare un nazionalismo che è, in nuce, conservatore se non fascista. Non sono pochi e non sono casuali, per esempio, i riferimenti ai Paesi Baschi e alla Catalogna, alle loro pulsioni indipendentiste e alla repressione voluta da poteri centrali implicitamente imperialisti. E non è certamente un caso che il film inizi con l’inquadratura della bandiera repubblicana spagnola a tre colori per chiudersi con quella della monarchia, ossia la bandiera “rosso-oro” ancora oggi in uso. Amenábar si mette in un ginepraio politico non scontato, evitando scorciatoie retoriche e persino di far aderire lo spettatore al protagonista che spesso è antipatico ma soprattutto è a lungo nel torto. Da tutto ciò discende anche l’ambizione del film, che guarda a ieri per parlare dell’oggi e che vuol sventare in ogni modo facili manicheismi per rendere più netto e risoluto il forte messaggio antifascista (nota a margine: non sorprende per nulla che, anche in questo film, Amenábar non risparmi pesanti critiche alla chiesa cattolica).

È tutto molto lodevole, molto interessante e intellettualmente stimolante. Però, poi, c’è il film con la sua debole resa stilistica. In un’operazione così importante e dal discreto budget è quasi assurdo trovarsi di fronte a una fotografia tanto piatta, a scene completamente illuminate, senza ombre e profondità, degne di una fiction televisiva. In alternativa, per i momenti più intimi del protagonista – come quelli in famiglia, assieme alle figlie e al nipotino – arrivano filtri degni invece di una pubblicità che vuole ottenere un effetto più morbido. Terribili anche le dissolvenze, il ricorrente “sogno” del vecchio rettore di ritrovarsi giovane assieme alla defunta moglie (fotografato sempre con una luminosità finta e deprivata di sfumature), i ralenti e altri effetti inutili quanto ineleganti. Le brutte dissolvenze assorbono poi, indegnamente, una delle scene potenzialmente più belle del film, ovvero il dialogo tra de Unamuno e il suo allievo prediletto, quel Salvador Vila (Carlos Serrano-Clark) brutalmente giustiziato dalla dittatura militare pochi mesi dopo: la discussione tra il rettore che giustamente odia Stalin e perciò rigetta le derive del socialismo e il suo pupillo che invece resta convintamente socialista pur detestando Stalin potrebbe essere una scena fortissima, centrale, mentre invece è solo abbozzata visto che il regista sceglie di “zittire” il dialogo e procedere per dissolvenze e campi sempre più lunghi mentre la musica prende il sopravvento sulla parola. La musica, vera tragedia del film: che Amenábar, pur con tutte le discontinuità del mondo, sia un regista brillante è fuori di dubbio, ma qualcuno dovrebbe dirgli che non deve per forza scrivere anche le musiche dei suoi film, soprattutto se firma una colonna sonora come questa, ampollosa, tronfia, pomposa. Insomma insopportabile, capace di profondere retorica in abbondanza laddove il film nella sostanza la rifiuta. Persino la scenografia, anche a causa della pessima fotografia, risulta infine falsa e l’ambientazione è poco convincente. Se si escludono gli interpreti (in particolare Santi Prego che impersona Francisco Franco ed Eduard Fernandez nella incredibile parte del guerrafondaio Millan-Astray), stilisticamente il film sembra pensato per la prima serata televisiva. Nonostante tutto ci sono alcune sequenze notevoli, come quella finale col discorso che condannerà il rettore a essere messo da parte dalla dittatura (morirà due mesi dopo, alla fine del 1936) e che plasticamente riesce a mostrare cosa siano il fascismo, il suo linguaggio, la sua pulsionalità ottusa, grazie ai controcampi rivolti a una folla militare stupida quanto pronta a ripetere parole d’ordine senza alcun senso e a sbeffeggiare le argomentazioni raffinate. Ficcante anche la scelta di mettere in parallelo la riunione tra militari che sancì l’ascesa di Franco e la riunione dell’Università di Salamanca in cui, disgraziatamente, de Unamuno firmò un manifesto a sostegno del regime e ne mise a punto persino l’ideologia poi resa pubblica, quella di preservare la “civiltà cristiana occidentale”.

Se si escludono alcune sequenze, Lettera a Franco è in sintesi più intelligente che riuscito. Stilisticamente molto debole, il film compensa però le proprie fragilità cinematografiche con un contenuto denso, intenso e per nulla banale. Che fotografa la presa del potere di Franco nel suo incipit embrionale e guarda la dittatura dal punto di vista di un intellettuale repubblicano ma non più socialista, un realista che proprio in virtù del suo realismo non capisce l’enorme slavina che sta per arrivare. Come è capitato, del resto, a tanti colti europei, magari convinti che il fascismo fosse il male minore… “Mientras dure la guerra”, finché dura la guerra: erano le parole che alcuni militari volevano scrivere nel documento che investiva il caudillo Franco di poteri straordinari, a metà del ’36, per evitarne un uso a tempo indeterminato. Quelle parole sparirono dal documento e non furono scritte. Franco prese il potere e resse la Spagna, sotto la sua dittatura, anche dopo la Seconda Guerra Mondale e fino alla sua morte nel 1975, per quasi 40 anni.

Info
Lettera a Franco sul sito del Torino Film Festival.

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