Mortacci
di Sergio Citti
Sergio Citti è stato il cantore più sardonico e surreale dei vizi e delle ben poche virtù dell’italica gente, e Mortacci in tal senso appare quasi una summa del suo pensiero: il trapasso non prevede infatti alcuna redenzione, né nessun sollievo dalla pena dell’esistere. Con un cast come al solito corale e schizofrenico, da Vittorio Gassman a Carol Alt, da Malcolm McDowell ad Alvaro Vitali, da Andy Luotto a Mariangela Melato.
Scopone sa anche ballare
Alcuni trapassati si trovano in una vita sospesa, in una sorta di purgatorio-parcheggio, e allora ciascuno racconta la propria storia. Ci sono i morti recenti e quelli di alcuni secoli fa, ci sono poetini e assatanati, imbroglioni e potenti, attori e belle donne, ciascuno con tante cose da dire. [sinossi]
Forse non è esistito nel cinema italiano un regista più puro di Sergio Citti. L’aggettivo non va certo visto nella sua accezione cattolica e angelicata, sia chiaro, eppure si fatica a trovare all’interno della storia della produzione italiana un cineasta così essenziale senza mai correre il rischio però di apparire disadorno, o svuotato di sentimento. Al contrario, il cinema di Citti gronda di sentimenti, di sensazioni, di afrori e odori, di rumori sconci e che spesso sarebbe preferibile nascondere: il sibilo di un peto, o il borborigmo di uno stomaco sottosopra per la fame. Filosofo borgataro che non ha mai provato vergogna della propria estrazione, né ha mai cercato di farsi fagocitare dal mondo borghese che pure lambiva (ma all’interno dei salotti capitolini era visto in ogni caso come un paria, un intoccabile, e il giorno della sua morte non tutti fecero capolino alla camera ardente), Citti è stato un sobillatore, un anarco-insurrezionalista che ben aveva introiettato la dottrina pasoliniana finendo per farla propria: dopotutto aveva contribuito a sceneggiare Accattone, per bagnare l’esordio alla regia di Pasolini, e poi anche La commare secca, prima regia di Bernardo Bertolucci. Quella tipologia umana, il romano metà traffichino metà Rugantino, sottoproletario nei secoli dei secoli, Citti lo aveva conosciuto, e lo incarnava insieme al fratello minore Franco; non aveva bisogno di fingere, non aveva bisogno di studiare i personaggi, non aveva bisogno di alterare alcunché. Quella di Citti è stato il lungo e articolato poema di una discarica, del vagare infinito degli affamati, di un casotto al mare, e anche di un camposanto. Sì, perché è il cimitero il luogo centrale attorno al quale si articola Mortacci, la sua sesta regia per il cinema e la prima a quasi un decennio di distanza dal miracoloso Il minestrone. Lì per l’appunto si registrava la transumanza senza destinazione certa di una massa umana proletaria perennemente affamata, e incapace di consumare anche il più miserando dei pasti. Tutta quella genia umana in qualche modo la si ritrova anche nel 1989, solo che i personaggi sono tutti morti. Ma proprio tutti. L’idea, che a quanto pare Citti aveva ricevuto in “dono” da Pasolini quasi venti anni prima, è quella di un cimitero in cui le anime dei defunti stazionano, in attesa che anche l’ultima persona che si ricorda di loro trapassi, in modo da non aver più alcun legame, neanche ideale, con la Terra. In questa sorta di eterna quinta teatrale, nella quale gli spiriti discettano tra loro delle rispettive disgrazie da vivi, si intravvede il ricordo di Che cosa sono le nuvole?, capolavoro breve di Pasolini: anche quella dei protagonisti di Mortacci è in qualche modo una rappresentazione sempre uguale a se stessa, solo che invece di avere tra le mani un testo shakespeariano devono rimembrare ogni volta la loro vita, e la loro morte.
C’è Lucillo Cardellini, per esempio, che è tornato da vivo al suo paese (dov’era creduto morto in una missione di pace, e per questo consacrato come eroe) e lì è stato mattato dai suoi stessi genitori; ci sono due piccoli truffatoti gabbati dalla donna che cercavano di raggirare; c’è un pomposo attore che si va a suicidare sulla tomba della donna che ha amato. Ma a Citti la morte interessa relativamente. Rispolverando le commedie ectoplasmatiche à la Fantasmi a Roma di Antonio Pietrangeli – una delle opere meno considerate, e più incomprese del grandissimo regista – Citti prende a spunto la riflessione post-mortem per cercare di allargare lo sguardo sulle miserie del vivere, sulla grettezza umana, sull’incapacità congenita dell’umanità consumista e capitalista di accogliere il sacro – di nuovo, da non intendere nell’accezione meramente religiosa – e uscire dalla propria materialità priva di cognizione, di struttura, di ideale utopico o concreto che sia. I personaggi di Mortacci vogliono arraffare, nient’altro che questo. Vogliono godere in vita dei lussi che pensano di meritare, e sono pronti a tutto per non esserne privati. L’amaro spaccato umano che da sempre accompagna le opere di Citti (si pensi su tutti allo scandaglio privo di pietà cui sono sottoposti i personaggi del sommo Casotto) trova in Mortacci il suo limite ultimo, l’assenza di vita, e lo supera a pie’ pari. La vita oltre la morte? Un eterno pianerottolo nel quale chiacchierare in attesa di potersene davvero andare all’altro mondo, sempre che esista. Il cimitero come condominio, bene comune per antonomasia della società italiana. Il cimitero come luogo in cui continuare a rammentare la propria vita e continuare a subire angherie: sì, perché il custode del luogo di sepoltura, tal Domenico, è uno sgherro pronto a turlupinare persino i defunti, senza vergogna alcuna. Seguendo lo schema da lui prediletto Citti orchestra una narrazione corale, ma rispetto ad altre opere le varie storie sono del tutto scollegate tra loro (anche per epoca storica, tra l’altro): ecco dunque che il personaggio di Domenico, incarnato da un Vittorio Gassman mai così laido e luciferino – e la sua presenza in scena sembra quasi rimandare a I mostri di Dino Risi, che non si muove su direttrici poi così diverse – serve anche a fungere da collante, a mantenere un equilibrio laddove a dominare sarebbe altrimenti il caos. Un piccolo stratagemma di sceneggiatura che olia i meccanismi di una comicità come sempre surreale, acidissima, prossima alla tragedia apocalittica.
Tra i tanti meriti di Mortacci c’è anche quello di donare il meritato spazio a due comici quasi sempre destinati alla retrovia, quando non apertamente irrisi dalla critica nazionale. Alvaro Vitali è a dir poco sublime nella parte del furbastro che rivendica lo scheletro di un inglese come fosse quello di suo padre, per il quale avrebbe – dice – speso molti soldi nel corso degli anni per i fiori e i lumini: insieme ad Aldo Giuffré si rende protagonista di un duetto farsesco che guarda la filosofia decurtisiana della “livella” da tutt’altra prospettiva (visto che i morti sono tutti uguali, ognuno si prenda quello che più gli aggrada, e ci lucri anche sopra se ne è in grado: “Ci campi con tu’ padre morto, eh?”, ridacchia Domenico). Ma è ancora più sorprendente la performance di Andy Luotto nei panni di Scopone, squallido dandy senza arte né parte che va in spiaggia in giacca e camicia ed è ossessionato dal deretano delle ragazze – “i culi!”, sospira tra il beato e il disperato. Il segmento che lo vede protagonista è con ogni probabilità anche la punta massima di Mortacci, il momento irripetibile in cui la tragica miseria dell’esistenza viene profanata dal germe salvifico e mortuario del ridicolo, del pecoreccio, della comicità grossolana. Luotto, sudaticcio e sozzo, che abborda una ragazza dopo l’altra senza soluzione di continuità (e senza risultati particolarmente incoraggianti), è il grado zero dell’uomo, ma allo stesso tempo possiede una dimessa posa decadente che lo rende fragile, e dunque meritevole di empatia. Il suo agghiacciante repertorio si muove tra sguardi languidi, carezze lascive a un bicchiere di tè freddo, e una serie di battute granitiche quanto risibili: “Io so’ l’ultimo dei romantici, poi so’ finiti”, “Dove passa Scopone non cresce più un pelo”, “A me Casanova me lo sgrulla”. Un fuoco di fila che si conclude su “Scopone sa pure ballare”, subito prima che la congestione lo porti a defecarsi addosso, per poi morire letteralmente di vergogna. Nella capacità di rielaborare in scena due corpi comici fin troppo spesso abusati e privati della loro reale vis anarchica, Citti testimonia una volta di più la cristallina forza della propria poetica, e la già citata purezza di un cinema che sa essere piano e multi-dimensionale a un tempo. Anche per questo è un peccato che, di fronte alla caparbia volontà del regista di non accettare compromessi – né consigli – Carlo Verdone, Roberto Benigni e Massimo Troisi, contattati per una parte (rispettivamente quelle poi andate a Gassman, Sergio Rubini e Malcolm McDowell, abbiano preferito farsi da parte, e rifiutare di prendere parte al film. Non è esistito nel cinema italiano un regista più puro di Sergio Citti. Ed è probabile che non esisterà mai.
Info
Mortacci, una clip.
- Genere: commedia, grottesco, surreale
- Titolo originale: Mortacci
- Paese/Anno: Italia | 1989
- Regia: Sergio Citti
- Sceneggiatura: David Grieco, Ottavio Jemma, Sergio Citti, Vincenzo Cerami
- Fotografia: Cristiano Pogany
- Montaggio: Ugo De Rossi
- Interpreti: Adriano Wajskol, Aldo Giuffré, Alvaro Vitali, Andy Luotto, Arnaldo Mangolini, Carol Alt, Donald O'Brien, Eraldo Turra, Fabio Carfora, Galeazzo Benti, Gina Rovere, Giuseppe Saponara, Laura Tanziani, Luciano Manzalini, Malcolm McDowell, Mariangela Melato, Michela Miti, Nino Frassica, Ottavio Possidoni, Roberto Simmi, Sergio Rubini, Silvana Bosi, Vittorio Gassman
- Colonna sonora: Francesco De Masi
- Produzione: Unione Cinematografica
- Durata: 108'
