Cigarette Burns – Incubo mortale
di John Carpenter
Speciale Senza il cinema. Con il cinema.
Può un film portare lo spettatore alla follia, distruggerlo completamente? Questo è l’interrogativo alla base di Cigarette Burns – Incubo mortale, episodio della serie televisiva Showtime Masters of Horror diretto da John Carpenter. Giocando con l’ossessione cinematografica, e con la sua mitologia, Carpenter torna a ragionare su alcuni dei punti fermi della propria poetica, e il film sembra muoversi nel solco di opere come Il seme della follia. Creando una dialettica tra l’immateriale ĭmāgo, lo spettro del cinema, e la carnalità delle viscere umane Carpenter specula sul divino e sul profano, dando vita a uno degli horror più potenti e suggestivi d’inizio millennio.
La Fin Absolue du Monde
Kirby Sweetman è un cinefilo che gestisce una sala cinematografica. Quando un ricco collezionista gli commissiona la ricerca di un film intitolato La Fin Absolue du Monde, vi si getta con passione. La pellicola, proiettata una sola volta al festival di Sitges, sarebbe stata fatta sparire dopo aver causato tra gli spettatori un raptus improvviso di cannibalismo e follia omicida. [sinossi]
La cigarette burns, o “bruciatura di sigaretta”, è così descritta nel romanzo di Chuck Palahniuk Fight Club: «I vecchi cinema con due proiettori, lì il proiezionista deve essere sul posto di lavoro a cambiare proiettore nel momento preciso cosicché il pubblico non si accorge dell’interruzione quando un pizza finisce e comincia un’altra. Bisogna stare attenti ai puntini bianchi che sono in cima, nell’angolo destro dello schermo. È il segnale. Ci fai caso e vedrai due punti in fondo alla pizza. “Bruciature di sigaretta” le chiamano nel giro. Il primo punto bianco è l’avvertimento dei due minuti. Metti in funzione il secondo proiettore perché raggiunga la velocità. Il secondo punto bianco è l’avvertimento dei cinque secondi. Emozione. Sei lì tra i due proiettori e la cabina suda surriscaldata dalle lampade allo xeno che se le guardi diritto sei cieco. Passa il primo punto sullo schermo. L’audio del film esce da un altoparlante che c’è dietro. La cabina di proiezione è insonorizzata perché dentro la cabina c’è il fracasso delle ruote dentate che trascinano la pellicola davanti all’obbiettivo a sei piedi al secondo, peggio di una mitraglia. I due proiettori sono in funzione, tu sei in mezzo, pronto ad intervenire su entrambe le leve dell’otturatore. I proiettori veramente antichi hanno un allarme montato sul mozzo del rullo di alimentazione. Anche dopo che il film viene passato in televisione ci sono ancora i punti di avvertimento. Persino nei film che fanno in aereo. Quando la maggior parte della pellicola è finita sul rullo di recupero, questo rullo si muove più lentamente e il rullo di alimentazione deve girare più veloce. Alla fine di una pizza, il rullo di alimentazione gira così veloce che fa partire l’allarme che ti avverte che è in arrivo il momento del cambio. Il buio è torrido per via delle lampade dentro i proiettori e suona l’allarme. Stai lì tra i due proiettori con le leve pronte e sorvegli l’angolo dello schermo. Passa il secondo punto. Conti fino a cinque. Chiudi un otturatore. Contemporaneamente apri l’altro. Cambio. Il film continua. Nessuno in platea si accorge». La cigarette burns è dunque un “avvertimento”, il segnale di “pericolo” che la pellicola, la materia che trattiene sulla propria superficie la narrazione immateriale, rimanda a chi se ne deve occupare. Il proiezionista. Lo spettatore. Il cinefilo. Il regista che guarda una seconda volta (o una terza, o una quarta…) il proprio film. È un codice, un dialogo per addetti ai lavori. Recentemente se n’è tornato a parlare, in un mondo orrendamente digitalizzato, perché Mank, il film che David Fincher ha dedicato alla stesura della sceneggiatura di Citizen Kane, le “finge” in diverse occasioni. Una menzogna, ovviamente, perché non c’è nessun cambio di rullo in Mank, essendo stato girato interamente in digitale; ma allo stesso tempo un’autocitazione, visto che fu proprio Fincher a tradurre in immagini in movimento (e in trentacinque millimetri) il romanzo di Palahniuk e conservando all’interno quel passaggio, con Tyler Durden/Brad Pitt impegnato in sala di proiezione. Per quanto oggi forse sia dimenticato – un po’ come il suo autore, cui nessuno più produce alcunché da dieci anni – nel 2005 ci fu un altro film, breve per gli standard cinematografici contemporanei, che teorizzò sulle “bruciature di sigarette”, allargando la speculazione al senso stesso dell’immagine riprodotta, al concetto di produzione dell’orrore, e al concetto di ossessione. Quel film breve, di poco meno di un’ora di durata, si chiama proprio Cigarette Burns (il beota sottotitolo italiano recita Incubo mortale) e lo ha diretto John Carpenter per prendere parte a una miniserie televisiva creata da Mick Garris, e mandata in onda su Showtime con il titolo Masters of Horror.
Un po’ come accade a La fin absolue du monde, lo pseudo-film diretto dall’immaginario Hans Backovic che, proiettato una sola volta nella cornice del festival di Sitges avrebbe prodotto un’ondata di follia omicida negli spettatori in sala, anche i partecipanti a Masters of Horror apparivano nel 2005 come dei residuati bellici, spettri del passato che tornavano a tormentare i fanciulli millenari: oltre a Carpenter partecipavano alla baraonda del terrore tra gli altri Tobe Hooper, Joe Dante, Don Coscarelli, John Landis, Stuart Gordon, Dario Argento, Larry Cohen, John McNaughton, tutti registi che Hollywood aveva sfruttato, metabolizzato ed espulso senza troppe cautele (per i registi stessi) dall’organismo. Cannibalizzati. Tra i pochi contemporanei in rampa di lancio per la conquista degli occhi sgranati dei “nuovi” spettatori l’eretico Takashi Miike diresse un capitolo così profondamente indigesto (lo straordinario Imprint) che la rete televisiva pensò bene di non mandarlo mai in onda, mentre in Italia venne ospitato sul grande schermo dal Far East Film Festival di Udine nella primavera del 2006. La fine assoluta del mondo, a voler essere capziosi, stava già tutta lì, nella dimensione per cui erano stati montati e prodotti tutti questi film: la televisione. Alcuni tra i più fertili bombaroli dell’immaginario moderno, anche e soprattutto dalle parti di Hollywood, fieri oppositori della prassi e dallo sguardo perennemente anarchico, a inizio millennio erano ridotti a lavorare per la televisione. In pochi si indignarono all’epoca, con il risultato – forse inevitabile – che quindici anni dopo di questi registi non c’è traccia neanche più in televisione: di Carpenter si è già scritto, l’ultimo film di Landis è a sua volta del 2010, McNaughton e Coscarelli non lavorano da sette anni, mentre Cohen, Hooper e Gordon sono morti. Quei tredici film – cui si sommarono l’anno successivo i tredici della seconda stagione con quasi tutti i registi confermati – erano già la negazione di loro stessi, e della loro essenza: diretti da maestri da cui tutti rubavano ma nessuno voleva più veder girare, e filmati in 35mm con una Arriflex 535B per poi essere stampati direttamente in video.
In poco meno di un’ora Cigarette Burns, partendo da una sceneggiatura di Drew McWeeny e Scott Swan (nome d’arte di Rebecca Swan, che regista del dimenticato e dimenticabile Maskhead insieme a Fred Vogel), rielabora concetti già presenti nella filmografia di Carpenter: il film sembra muoversi infatti nel solco fertile de Il seme della follia, sostituendo la letteratura con il cinema. Il côté lovecraftiano è d’altro canto sottolineato dalla presenza centrale all’interno della narrazione di uno pseudo-film, così come lo pseudobiblion sperimentato da Lovecraft con il Necronomicon. È ovviamente “inventato” La fin absolue du monde, il film che rende folle chi assiste a una sua proiezione, così come non esiste alcun Hans Backovic negli archivi della Settima Arte. Un nome proprio germanico (Hans), un patronimico balcanico (Backovic), un titolo in francese (la fin absolue du monde), un’unica proiezione in terra spagnola (Sitges): è come se Carpenter “continentalizzasse” quest’oggetto del desiderio che è inevitabilmente anche oggetto di dannazione, in qualche modo sottolineando come a spingersi oltre recinto del visibile – nel senso di accettabile come visione – potesse essere solo un film prodotto dall’altra parte dell’oceano Atlantico, lontano dalle strutture hollywoodiane che soffocherebbero qualsiasi velleità oltranzista, riconducendo al contrario tutto, perfino le scorie del cinema dell’orrore, in un campo circoscritto, e dunque controllabile. Sfugge completamente al controllo, il film di Backovic, così tanto che Carpenter lo lascia in maniera oculata fuori dal campo visivo, e non solo – come si potrebbe supporre – per l’oggettiva impossibilità a riprodurre qualcosa di così assoluto, ma anche e soprattutto perché in modo assai più teorico palesare quell’assoluto equivarrebbe a renderlo comprensibile e dunque meno spaventoso, perfino rassicurante (quella rassicurazione nell’inquietudine che si prova quando il mostruoso che appare in scena è così chiaramente recintato nel rettangolo dello schermo, e quindi imprigionato in una non-zona liminare). Carpenter ha sempre ragionato sul cinema in tre modalità tra loro dialettiche ma differenti. C’è il film come oggetto, materia tattile da poter maneggiare: in questo caso si ha a che fare con un film misterioso che parte dal concetto di cerca o detection tipico del noir per approdare in campi prossimi al body-horror tipico in particolar modo degli anni Ottanta. C’è poi il film come filiazione, progenitore ed erede a un tempo: da qui i non pochi rimandi, spesso anche ludici, che Cigarette Burns propone ai suoi spettatori, in un gioco cinefilo mai fine a se stesso. Infine c’è il film come tramite di una speculazione filosofica sui concetti stessi di vita e morte, sul significato dell’esistere, di desiderio e ossessione – e della loro figlia più fulgida, la paura. Partito come episodio concluso in sé di una serie televisiva che dovrebbe lasciare solo brividi sulla pelle del pubblico, Cigarette Burns si eleva fino a divenire una riflessione sul cinema come extrema ratio per l’utopia desiderante del corpo occidentale in un’epoca che ha abbandonato fede e ideologia, perdendosi però nei recessi del mercato.
Kirby Sweetman, il giovane esercente di una sala cinematografica che con la promessa di un lauto compenso si mette alla disperata ricerca del leggendario film di Backovic, anche per sopperire ai pesanti debiti che ha contratto nel corso del tempo (il volto quasi del tutto atonale di Norman Reedus paradossalmente si presta alla perfezione a svuotare di senso la costruzione fin troppo eccessiva del vissuto del personaggio), ha più di un tratto in comune con l’esperto di libri antichi Dean Corso che Johnny Depp trascina in giro per l’Europa alla ricerca dei tre volumi superstiti de Le nove porte del Regno delle Ombre ne La nona porta di Roman Polanski, e non si può affatto escludere che gli sceneggiatori abbiano trovato lì alcune delle ispirazioni in fase di scrittura. Ma da un punto di vista registico, come già accennato, Carpenter sembra interessato a una ridefinizione dei campi del body-horror, nel tentativo di rendere viscerale e dunque eviscerabile l’immateriale. Creando una dialettica tra l’immateriale ĭmāgo, lo spettro del cinema, e la carnalità delle viscere umane Carpenter specula sul divino e sul profano, spingendo fuori dai campi dell’accettabile Cigarette Burns: per i canoni televisivi il film è ai limiti del programmabile, tra cultori giapponesi che si accecano – quando il limite del visibile è superato, che senso ha continuare a vedere? –, sangue a profusione e via discorrendo. L’apice lo si raggiunge con il personaggio di Bellinger, interpretato con fare come al solito luciferino da Udo Kier, che proietta le sue stesse budella al posto della pellicola inserendole sulla croce di malta per farle passare davanti alla lampada. Un intestino a ventiquattro fotogrammi al secondo. Non si tratta però di un escamotage per “épater la bourgeoisie” e farle distogliere lo sguardo, ma del tentativo di spingere il discorso sul cinema come proiezione del reale (e del “possibilmente reale”) un passo più in là: se il cinema è vita a ventiquattro fotogrammi al secondo, perché non si dovrebbe lavorare direttamente sul proprio e altrui corpo? Come La nona porta e il Necronomicon, di nuovo, Cigarette Burns è infine un film sul “demonio” nel senso etimologico del termine: δαιμόνιον, e dunque ammirabile perché appartenente agli dei. Lo è anche il cinema? Oppure, nel mistero insondabile dell’immagine in movimento che simula la vita, la materia è troppo umana per poter anelare al divino? Quale che sia la risposta a tale quesito il diavolo, lo dice la saggezza popolare, è nei dettagli: così insegnava già Dario Argento in Profondo rosso – citato direttamente nel film – e così Carpenter ribadisce, proprio a partire dalla bruciatura di sigaretta, quel marchio quasi inavvertibile ma che trattiene nel suo stesso esistere il senso del cinema, dell’immagine creata, ri-creata, eterna e (in)visibile.
Info
Cigarette Burns – Incubo mortale, un trailer.
- Genere: horror
- Titolo originale: Cigarette Burns
- Paese/Anno: Canada, USA | 2005
- Regia: John Carpenter
- Sceneggiatura: Drew McWeeny, Rebecca Swan
- Fotografia: Attila Szalay
- Montaggio: Patrick McMahon
- Interpreti: Brad Kelly, Chris Britton, Chris Gauthier, Christopher Redman, Colin Foo, Gary Hetherington, Norman Reedus, Taras Kostyuk, Udo Kier, Zara Taylor
- Colonna sonora: Cody Carpenter
- Produzione: IDT Entertainment, Industry Entertainment, Nice Guy Productions, Reunion Pictures
- Durata: 59'