Manhunter – Frammenti di un omicidio

Manhunter – Frammenti di un omicidio

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Capolavoro riconosciuto tale solo tardivamente e con sorprendente lentezza, Manhunter – Frammenti di un omicidio è spesso citato perché rappresenta la prima apparizione sullo schermo del personaggio di Hannibal Lecter – qui si chiama però Lecktor – creando così un dualismo posticcio e del tutto sterile con Il silenzio degli innocenti. Si tratta invece di due film non solo speculari, ma anche complementari nel loro discorso sul desiderio costruito attraverso lo sguardo, la fallibilità del destino, l’indagine come scoperta di sé prima ancora che dell’arcano. Michael Mann, il cui stile è già completamente maturo e inconfondibile, riflette sul proprio tempo ricorrendo a un modello predefinito per rilavorarlo attraverso il moderno, ragionando sull’alterità come unica via per “tornare in vita”.

Il sogno di accarezzare la tigre

Will Graham, ex agente dell’Fbi, vive in Florida con la moglie Molly e il figlio Kevin. La caccia ad un criminale di un precedente caso (lo psichiatra assassino dottor Lecktor, ora finito in galera) è costata a Will perfino il temporaneo ricovero in una clinica per malattie mentali. Ma ora egli è di nuovo in forma e non sa resistere alle richieste di un collega che non riesce a trovare un solo indizio a carico del maniaco omicida che, durante le notti di plenilunio, commette spaventose stragi: giovani coppie con bambini sono sterminate secondo macabri rituali. Will, affascinato dalla personalità contorta dell’assassino, gradualmente ricompone l’orrendo puzzle, diventato per lui una pericolosa ossessione. [sinossi]

Nella sequenza introduttiva di Manhunter – Frammenti di un omicidio, che anticipa persino l’avvento dei titoli di testa del film, l’occhio dello spettatore si apre sulla soggettiva di un uomo che, illuminando una casa al buio solo ricorrendo a una torcia, sale le scale per poi fermarsi a osservare e puntare la luce su una coppia che sta dormendo in un letto matrimoniale: la donna si sveglia, e si corica. Questa sequenza, con la medesima inquadratura delle scale, verrà poi replicata una decina di minuti più tardi, quando a salire al primo piano della casa – sempre di notte e sempre con la torcia come unico punto luce – sarà Will Graham, ex agente dell’FBI che ha deciso di tornare a collaborare alle indagini per cercare di fare luce sugli efferati omicidi compiuti durante le notti di plenilunio da un serial killer che la polizia chiama “amichevolmente” Dente di fata (Tooth Fairy è il nome nell’originale inglese). La straordinaria potenza di un’opera come quella che Michael Mann portò a termine nel 1986 la si potrebbe rintracciare volendo anche solo in questo dettaglio: l’inquadratura quasi ripetuta che mostra in soggettiva una salita delle scale. C’è già tutto, in effetti, in quel brevissimo passaggio. Innanzitutto vi si ritrova il riferimento al genere, quel thriller cui Mann non tornerà più, almeno non in modo così esplicito – hanno evidenti riferimenti al thriller sia Insider che Collateral, oltre all’ultimo, per ora, Blackhat, ma si tratta di spunti estetici e di senso che servono a irrobustire, innervare una materia che pulsa sangue in altre vene: il dramma giudiziario, il noir, l’action –, e che qui invece funziona come ruota motrice dell’intero ingranaggio. Il cattivo che si aggira nella notte indisturbato mentre le vittime dormono è uno dei cliché del genere, d’altro canto, e il regista non fa nulla per evitarlo, anzi: nel suo “doppio” oggettivo, con Graham che sta indagando seppur ricorrendo alle sue abitudini inusuali, Mann non (si) risparmia un’inquadratura plongée che richiama alla mente cinefila l’intrusione del detective privato Arbogast in casa Bates in Psyco. Mann, come Hitchcock venticinque anni prima, ricorre a un’oggettiva irreale, unico modo per poter forse affrontare l’incubo, l’orrore intriso di malignità o meglio ancora di devianza mentale. In secondo luogo, tornando alla scelta di ricorrere a un incipit simile, si rintraccia la volontà di porre lo spettatore subito di fronte a una crisi d’identità. È lui, lo spettatore, a salire le scale. È lui, lo spettatore, a puntare la torcia contro la donna che sta dormendo. L’occhio dell’assassino, in un’altra riflessione cinematografico-psicanalitica, è l’occhio dello spettatore stesso, costretto in quel ruolo dalla scelta della soggettiva. Ne Il silenzio degli innocenti, film che come oramai tutti sanno è legato a doppio filo a Manhunter, Hannibal Lecter insegnava a Clarice Starling che “noi desideriamo ciò che vediamo ogni giorno”. Analogamente Mann non apre il suo film su una scena di suspense. Non apre il suo film su un crimine. Mann apre Manhunter facendo sprofondare lo spettatore nel desiderio, sentimento che non abbandonerà fino alla fine del film. Lo spettatore desidera salire quelle scale, e forse anche fissare la donna che dorme ancora ignara di essere stata destinata (il destino, anche su questo si tornerà più avanti) al ruolo di vittima.

Ma c’è anche qualcos’altro, in quella breve scheggia d’inquadratura ripetuta quando a muoversi sul luogo della strage è l’agente del Federal Bureau. C’è il rispecchiamento (Graham si vede “accettato e amato nello specchio d’argento dei tuoi occhi”, dice rivolgendosi alla moglie). Graham è come Dente di Fata, sotto un certo punto di vista, ed è proprio Lecktor – così qui si chiama il geniale psichiatra cannibale, già dietro le sbarre perché messo in manette qualche anno prima proprio da Graham – a suggerire la possibile sovrimpressione tra la mente di un detective e quella di uno psicopatico. Non a caso Graham indaga cercando di ricalcare passo dopo passo quello che il serial killer può aver fatto, al punto da salire sull’albero davanti alla casa che è divenuta scena del crimine per poter godere della stessa visuale dell’uomo. La visuale, la vista. Di nuovo l’epicentro del discorso si fa nello sguardo e attraverso lo sguardo, dal quale non si può mai evadere. Si può tentare di addormentarsi sull’aereo cercando di spingere via tutti i brutti pensieri, ma le fotografie che ritraggono le vittime del “mostro” sono sempre lì, a traumatizzare la bambina seduta nel sedile accanto. No, non si può sfuggire allo sguardo. Non lo si può fare in un thriller, dove si ricorrerebbe volentieri a una mano davanti agli occhi per non vedere, e non lo si può fare ancora di più nel cuore degli anni Ottanta, il decennio edonista per eccellenza. Ne è filosoficamente consapevole Mann, che fa sì che i suoi personaggi abbiano modo di specchiarsi, per scoprire e riscoprirsi, disseminando una serie di superfici riflettenti, di oggetti che possono illuminarli. La duplicità dell’animo e della mente di Graham è già tutta nella sua prima apparizione in scena, con il cielo limpido che raddoppia il blu cristallino dell’oceano, e lui e il suo capo/collega Jack Crawford seduti su due lati opposti – e con lo sguardo mosso in opposte direzioni, chissà a desiderare cosa – di un tronco piantato nella sabbia. Con una sola scelta visiva Mann tramuta il suo protagonista nell’antagonista di se stesso, ruolo con cui dovrà confrontarsi per l’intera durata del film, visto e considerato che Manhunter è anche e forse soprattutto la messa in scena di una fragilità emotiva e dell’instabilità del potere portatore di ordine nel leggere se stesso e accettare la propria condizione: in questa chiave interpretativa Graham è una figura destabilizzata esattamente quanto Francis Dollarhyde, l’uomo che si cela dietro i molteplici omicidi compiuti nelle notti di plenilunio.

Per quanto lo stile di Mann sia stato spesso considerato barocco, persino “esagerato”, Manhunter è un film di straordinaria nettezza espressiva, quasi basico nella sua scelta cromatica, quel giocare tra il blu naturale della vita in Florida – dove la preoccupazione principale pare quella di costruire un reticolato per evitare che i granchi si pappino tutte le tartarughe neonate prima che queste riescano a raggiungere l’acqua – e il verde e il magenta che la fanno da padroni quando a entrare in scena è il villain, e che al contrario sottolineano il caos mentale e urbano, la caoticità di un mondo che non si ferma mai a riflettere, non rallenta, non si può limitare a guardare, ma deve sempre compiere il passo in più. Anche l’asciuttezza architettonica della casa dei Graham, con quegli angoli in evidenza e le grandi vetrate, sottolinea la logica di una vita distante dal rutilante incedere della quotidianità, da contrapporre alla carnalità assai maggiore della casa di Dollarhyde, dove allo sciabordio delle acque si sostituisce la fluviale e incessante In-A-Gadda-Da-Vida degli Iron Butterfly. Blu contro verde, rigore contro confusione, natura contro devianza della psiche umana. Le dicotomie di cui si compone Manhunter sono basiche, ma l’intreccio si fa poi assai meno ordinato, perché Graham è una figura liminare, in grado di muoversi in entrambe le realtà e di trovarvisi a proprio agio. In grado di desiderare tanto la quiete domestica quanto il sordido retropensiero di Dollarhyde, o di Lecktor. Sceglie, Graham, e si lascia scegliere. C’è del destino, come sempre in Mann, nelle pieghe che prende il racconto, un destino indotto o – meglio ancora – desiderato malgrado tutto. Lo stesso destino che, con una delle scelte più sconvolgenti e sorprendenti della storia del thriller, fa sì che Dollarhyde/Dente di Fata e la bella cieca Reba McClane (come fa a desiderare una persona che non ha più la vista? A quali sensi deve affidarsi?) si trovino e si innamorino. La Bella e la Bestia, per tornare ancora una volta a un archetipo. La sequenza in cui l’uomo che compie stragi durante le notti di plenilunio accompagna la donna nella clinica veterinaria in cui stanno per incapsulare un dente a una tigre addormentata racchiude al proprio interno parte non indifferente della poetica di Mann, dalla capacità di ragionare sui codici per smentirli e riscriverli alla digressione lirica, e quella di Joan Allen che accarezza il muso del grande felino fino a svelarne la possente dentatura sotto gli occhi innamorati e vigili – e desideranti – dell’uomo che si trasforma in bestia o mostro resta una delle immagini fondative del cinema statunitense degli anni Ottanta, non dissimile per restare al 1986 – e alle produzioni di Dino De Laurentiis – alla sequenza di Velluto blu in cui Kyle McLachlan osserva Isabella Rossellini e Dennis Hopper dalle assi dell’armadio. Straordinario esempio di cinema che, pur consapevole al cento per cento del proprio tempo non intende assecondarlo, Manhunter non venne compreso, e fu difeso strenuamente soprattutto da una piccola parte della critica. Il pubblico poi gli voltò quasi completamente le spalle. Non c’è da sorprendersi, perché la materia che tratta Mann è troppo sottile, troppo perversa nel senso più puro e concettuale del termine, per essere masticabile dalle masse, se non con gli stessi Denti di Fata con cui Dollarhyde brutalizza le sue vittime. A distanza di trentacinque anni qualcosa si potrebbe però pretenderla, smetterla una volta per tutte di mettere Manhunter e Il silenzio degli innocenti uno contro l’altro, quasi si dovesse scegliere da quale parte della barricata posizionarsi. Si tratta di due opere centrali per comprendere il senso di una Hollywood in sommovimento, la riscrittura di un genere e il tentativo – purtroppo di breve durata – di costringere gli spettatori a rispecchiarsi nell’abominio in scena, a comprenderlo non per accettarlo, ma per riuscire a combatterlo con maggior forza. Partendo da se stessi, ovviamente, specchiati in una scheggia di vetro.

Info
Manhunter – Frammenti di un omicidio, il trailer.

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