In the Mood for Love

In the Mood for Love

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A distanza di 21 anni dalla sua realizzazione In the Mood for Love torna in tutto il suo splendore sul grande schermo in una versione restaurata in 4K. In piena fase manierista Wong Kar-wai radicalizza la sua riflessione sulla memoria sbiadita e perduta, ragionando sul cinema come elemento di parcellizzazione dello sguardo e reclusione nello spazio chiuso. Magniloquente eppure minimale, un’opera fondamentale a cavallo del nuovo millennio.

Pene d’amor perdute

A Hong Kong Chau, redattore capo di un giornale locale, e sua moglie si trasferiscono in un nuovo appartamento in un quartiere di Shangai. Anche un’altra coppia, Li-chun e suo marito, si sono da poco trasferiti nello stesso quartiere. Approfittando delle soventi assenze dei loro coniugi Chau e Li-chun diventano amici, finche un giorno si devono arrendere all’evidenza che i loro rispettivi sposi intrattengono una relazione. [sinossi]

Il Tempo esiste, e nel momento stesso in cui viene razionalizzato è già passato, mai presente. È in una fessura del muro di Angkor Wat, una delle meraviglie del mondo (perduto), che Chow Mo-wan sussurra la verità, il segreto della sua storia, il mistero del suo tempo e di come è stato vissuto/attraversato. Angkor Wat, l’imponente tempio nel mezzo della giungla cambogiana che Antonio da Magdalena descrisse sul finire del XVI secolo con queste parole “è una costruzione così straordinaria che è impossibile da descrivere con una penna, poiché non c’è un edificio simile al mondo. Ha delle torri e delle decorazioni e quanto di più raffinato che il genio umano possa immaginare”. Probabilmente è impossibile descrivere con una penna anche In the Mood for Love, che a distanza di oltre venti anni dalla sua realizzazione torna sul grande schermo grazie alla Tucker Film nel restauro in digitale che era stato preparato per l’edizione 2020 del Festival di Cannes (proprio l’evento in cui il film nel 2000 ricevette la sua prima proiezione mondiale, portando in dote a Tony Leung Chiu-wai il riconoscimento come miglior attore). Un film che ragiona sull’impossibilità di mettere a fuoco il passato selezionato per un festival che non ha avuto un presente, non si è svolto, evanescente prima ancora di acquisire reale materia. Evanescente come quel sussurro nella pietra, sotto gli occhi solo di un giovanissimo monaco che dall’alto osserva, come la macchina da presa, ma non può sentire. Dopotutto sono gli stessi ideogrammi finali a sottolineare uno dei punti determinanti: “Il passato è qualcosa che può vedere, ma non toccare. E tutto ciò che vede è sfocato e indistinto”. Si (ri)parta dunque da qui, dal film che può essere visto, ma non toccato, ed è dunque memoria sfocata e indistinta anche di sé, oltre che della storia che viene narrata. La storia e la Storia, d’altro canto, si parlano e si guardano, forse persino arrivano a toccarsi almeno attraverso l’artificio del montaggio. C’è la storia di Chow e Su Li-zhen, amore abortito nella sua funzione corporea e dunque tattile, e percepibile solo attraverso lo sguarod e la parola. E c’è la Storia del sud-est asiatico in sommovimento, con il colonialismo che si sgretola. Nel 1965 inizia l’escalation della guerra del Vietnam (tra esercito del Nord e del Sud del paese), coinvolgendo anche Laos e Cambogia, gli altri due stati che avevano formato l’Indocina francese. Non è certo casuale la scelta di Wong Kar-wai di anticipare l’ultimo segmento del film con le immagini di repertorio della visita che nel 1966 portò il generale Charles de Gaulle a Phnom Penh, mentre poco più di 200 chilometri a est Saigon vedeva aumentare le truppe statunitensi in modo esponenziale. Hong Kong, che era protettorato britannico e lo sarebbe rimasto per un altro trentennio già coglieva però il peso politico e storico della Rivoluzione Culturale lanciata da Mao Zedong. De Gaulle può ancora andare in visita in Cambogia, ma il vento sta soffiando verso est, e porterà con sé la Repubblica di Kampuchea, e più in là nel Tempo l’handover, il ritorno del “Porto profumato” sotto l’egida della Cina. Solo un breve stacco sul nero distingue il repertorio dal film, unico iato possibile per ricongiungere e tempo e fingerlo. Ricrearlo.

In the Mood for Love è in fin dei conti un’opera di ricostruzione, parziale e imperfetta, nebulosa e criptica. La ricostruzione della memoria di un uomo che non ha più nessuno con cui condividere il proprio pensiero, e il vissuto. Ciò che fu non è più per nessuno, se non una crepa in un muro millenario. Una crepa che non parla, non condividerà il segreto. Può permettersi questa forzatura allora il cinema? Wong si pone l’interrogativo, e riflette attorno a questo punto per l’intera durata del film. Può il cinema rappresentare una memoria incrollabile, infallibile, certosina nella sua testimonianza di verità? La risposta, almeno per quel che concerne il cineasta hongkonghese, è no. Il cinema cerca appigli nella Storia, riannoda alcuni fili, ma non potrà mai rappresentare un ricordo “indelebile”. Ci sono troppe storie sottaciute dietro l’immagine, troppi segreti che sono sussurrati alla pietra corrosa dal tempo, o al tronco di un albero. La prima inquadratura di In the Mood for Love è già un duplice tuffo nel passato: la Hong Kong del 1962 – che sarà passato anche per Chow nel finale –, certo, ma sul muro dell’appartamento della signora Suen (la grande Rebecca Pan, presente anche nella colonna sonora con la sua versione del brano folklorico indonesiano Bengawan Solo, e già conosciuta ai fedeli cultori di Wong per la sua partecipazione a Days of Being Wild) ci sono le foto in bianco e nero di un tempo imprecisato, forse gli anni Trenta o Quaranta. Quante Hong Kong esistono? Mille, e dunque nessuna. Per questo Wong non può mai permettersi di uscire davvero dalla ricostruzione in interni: la memoria è fallace, ma il Tempo esiste, e non si può far finta di ricreare una città, al massimo una stanza, un appartamento, un letto. L’unico elemento naturale di In the Mood for Love è sempre il tempio di Angkor, effige di un mondo scomparso, eternamente relegato nel passato anche quando viene attraversato, vissuto, nel presente.

Anche l’inizio del film, oltre alla sua conclusione, è assegnato a una serie di ideogrammi. “Fu un faccia a faccia imbarazzante. Lei, sia pure con pudore, gli diede l’occasione di avvicinarsi. Ma a lui mancò il coraggio. E allora lei, voltandogli le spalle, se ne andò”. Un modo per semplificare la trama? Forse. In the Mood for Love non è un film sull’amore, ed è per questo che rispetto a esempi precedenti all’interno della filmografia di Wong (su tutti il trittico-non-trittico – quasi un triangolo scaleno – composto da Hong Kong Express, Angeli perduti e Happy Together) la relazione tra i personaggi vede elisa ogni possibilità di reale contatto, di coinvolgimento sensoriale prima ancora che affettivo. In the Mood for Love è un film sullo stato d’animo, sulla percezione di sé in funzione di un “altro”, e sulla decostruzione/ricostruzione del proprio essere. Wong raggela il tempo, lavora sul rallentamento della velocità dell’immagine come disperato ultimo atto della memoria di aggrapparsi alle immagini – che non possono essere tangibili, toccate –, rinchiude la sua fotografia sia in una patina flou che in un gioco di quadri infiniti, tutti interni gli uni agli altri (in questo modo acquista un senso estetico particolare il fatto di aver lavorato con due direttori della fotografia diversi, il sodale Christopher Doyle – le loro strade si separeranno dopo 2046 –, e Mark Lee Ping-bing, al lavoro con il taiwanese Hou Hsiao-hsien fin dai tempi di A Time to Live, a Time to Die), lavora sulla reiterazione infinita. Reiterazione tanto dei gesti quotidiani, i più normali e dunque quelli che si imprimono con maggior forza nella memoria, come una donna che cammina per la strada portando con sé il contenitore del cibo, quanto delle musiche, a partire dall’onnipresente Quizas, Quizas, Quizas nella versione di Nat King Cole. Si è parlato fin da subito di manierismo per In the Mood for Love, ed è senza dubbio in quella direzione che da qui in avanti si muoverà il cinema di Wong. Non si pensi però al termine in un’accezione strettamente negativa, e ancor meno reazionaria. La spinta propulsiva della ricerca rivoluzionaria dello sguardo, che abbraccia la prima – e più feconda, stando al numero di film prodotti – parte della carriera di Wong plana sul tracciato narrativo e mnemonico di In the Mood for Love. Wong si riconnette all’idea di classico, unico modo che ha per provare a rappresentare il passato. Eleva l’immagine già vissuta a effigie della perfezione: ecco dunque l’abbigliamento inappuntabile che sfoggia Maggie Cheung, il capello sempre perfettamente impomatato di Tony Leung, l’abbagliante nitore dei movimenti di macchina, il calligrafismo esasperato delle inquadrature. Abituato fino a quel momento a raccontare la vita, il regista si trova ora invece “costretto” a raccontare la memoria della vita.

Non è dunque un mélo In the Mood for Love, ma semmai la teorizzazione di come la mente umana rispetto a determinate questioni – l’amore, il sesso – sia naturalmente portata a costruire l’impianto narrativo ed emozionale di un mélo. Fuori dal rapporto tra Chow e Li-zhen c’è tutta la lordura della società, ma l’astrazione della coppia da questo non può portare vita, non può portare un amore compiuto, ma solo idealizzato. E dunque evanescente, come l’immagine che perdura nella sua manchevolezza, e come il cinema stesso. Sono due fantasmi, i protagonisti di In the Mood for Love, ma lo sono anche i rispettivi coniugi, che è impossibile vedere. In un mélo classico sarebbero questi altri due, i fedifraghi, l’epicentro dello sguardo. Si concentra invece sul vuoto, Wong, in uno spazio del Tempo in cui Hong Kong era ancora classica e già perduta (l’accordo sull’handover era firmato, il conto alla rovescia che porterà al 1997 era già partito), e in un interstizio di una storia d’amore che tale non è fino in fondo. Lunghissimo flashback impreciso e sbrindellato, In the Mood for Love è un’opera centrale per comprendere le direzioni dello sguardo autoriale a cavallo del millennio, e la spinta centrifuga – anche se all’apparenza centripeta – del cinema dell’estremo oriente, che sconvolgerà la prassi di quegli anni e costringerà l’occidente a volgere lo sguardo verso est.

Info
Il trailer di In the Mood for Love.

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