Harlem

La via fascista al cinema di propaganda non fu poi così “soft” come si pensa, a riaprire il dibattito sulla questione è ora il restauro di Harlem di Carmine Gallone. Sugli schermi del Cinema Ritrovato 2021.

Mr. Rossi va in America

Tommaso, un giovane pugile italiano, parte alla volta degli Stati Uniti per raggiungere il fratello Amedeo. Quando quest’ultimo viene accusato di omicidio e rischia di perdere il suo teatro e la sua azienda edile, il ragazzo partecipa a un incontro di boxe per ottenere i soldi necessari ad aiutarlo. [sinossi]

Come riportato dai principali compendi di storia del cinema, la propaganda cinematografica fascista è stata orientata soprattutto a esaltare il regime e le sue imprese, come ad esempio il colonialismo (Lo squadrone bianco di Augusto Genina, 1936), il sostegno al franchismo (L’assedio dell’Alcazar, sempre Genina, 1940), la marcia su Roma (Vecchia guardia, Alessandro Blasetti, 1935), senza dimenticare quel filone storico che nel celebrare la Roma imperiale e i suoi eroi (Scipione l’africano, Carmine Gallone, 1937) o addirittura il Risorgimento (1860, di Blasetti, 1935) stabiliva con essi una diretta discendenza per Mussolini e il fascismo.

Si trattava dunque una produzione prevalentemente “pro” (fascismo) e molto meno “contro” (minoranze o presunti nemici), sebbene in alcuni film dell’epoca, soprattutto a partire dall’ingresso dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale, sia presente una forma di dileggio dell’avversario politico e dello straniero. Inoltre, a differenza della produzione del Ministero di Propaganda Nazista guidato da Goebbels, se non altro dalle nostre parti non è stato realizzato nulla di simile al famigerato Süss l’ebreo di Weit Harlan (1940), opera arcinota per i suoi contenuti esplicitamente anti semiti.

Assume dunque un certo rilievo storico in quest’ottica il recupero della versione integrale di Harlem di Carmine Gallone (1943), pellicola che oltre a esaltare l’orgoglio patrio attraverso la storia di un pugile italiano a New York, contiene anche chiari elementi di natura razzista, sia nella raffigurazione di un impresario ebreo dai pochi scrupoli che nella messinscena di un avversario sul ring di origine “abissina”, e soprattutto poi dei suoi sostenitori, urlanti e abbrutiti, sugli spalti del Madison Square Garden. Una nota a margine interessante, contenuta nel catalogo de Il Cinema Ritrovato 2021 ci informa che quelle comparse erano dei prigionieri di guerra detenuti in un campo vicino Cinecittà “per usi cinematografici”, una storia che meriterebbe un racconto cinematografico a sé dato che lega a doppio filo propaganda, colonialismo, sfruttamento e cinema.

Restaurato dalla Cineteca Nazionale a cura di Luca Martera, che ha dedicato a questo suo lavoro anche l’omonimo volume edito da CSC e La nave di Teseo, Harlem è stato mostrato sugli schermi de Il Cinema Ritrovato 2021, dopo un’introduzione ad opera sia del Conservatore Alberto Anile (registrata) che dello stesso Luca Martera (in presenza). Introduzione dalla quale si è evinto che Harlem, pur essendo un film di propaganda che assume tonalità razziste è anche una sorta di looser, un perdente del suo tempo, essendo arrivato fuori tempo massimo. Uscito nelle sale nel 1943, a pochi mesi dalla caduta del fascismo, il film è stato infatti ben presto ritirato e ha circolato nuovamente a partire dal 1946 con il titolo di Knok-Out. In questa nuova versione, con 31 minuti di tagli e 7 minuti di ridoppiaggio, tutta la faccenda era ridotta all’ascesa sportiva di una sorta di Rocky ante-litteram. Ad ogni modo gli ingenti tagli, la cui documentazione è oggi disponibile sul sito Cinecensura, oltre al nuovo titolo avevano fatto guadagnare ad Harlem anche il poco invidiabile epiteto di “film più censurato di sempre”.

Tratto dall’omonima novella di Giuseppe Achille, Harlem segue le vicende del giovane Tommaso Rossi (Massimo Girotti) che insieme al nipotino Tony attraversa l’Oceano per raggiungere il fratello maggiore Amedeo (Amedeo Nazzari), divenuto costruttore edile a Brooklyn e gestore di un teatro, “La Nuova Italia”, abituale ritrovo di connazionali nonché oggetto d’interesse del malavitoso locale Chris Sherman (Osvaldo Valenti). Mentre Tommaso, nonostante la contrarietà del fratello, inizia a farsi strada nel mondo del pugilato, Sherman ordisce una trama criminale per appropriarsi dell’immobile: rapisce il piccolo Tony e fa rinchiudere Amedeo in prigione. Nel frattempo l’Italia dichiara guerra all’Abissinia e così l’ultimo incontro sul ring tra Tommaso e un pugile afro-americano diventa l’occasione, oltre che di salvare il teatro, anche di esaltare la purezza e forza degli ideali italici fascisti. Anche se né il fascismo né Mussolini vengono qui mai nominati.

Con alla firma della sceneggiatura anche l’ebreo Giacomo Debenedetti  e il futuro autore di Roma città aperta Sergio Amidei, Harlem è anche uno di quei casi in cui la lettura dei titoli di testa fornisce interessanti informazioni sull’epoca e il clima in cui è nato. Intanto la singolarità è che di cast & crew troviamo solo i cognomi, poi non si può far a meno di notare che il protagonista, Massimo Girotti, nello stesso anno ha lavorato anche in Ossessione di Luchino Visconti, film iniziatore del Neorealismo. Mentre in ben altra sorte è incorso il villain del film, quel famigerato Osvaldo Valenti che, arruolatosi nella X Mas, trovò la morte per mano dei partigiani insieme alla compagna e diva Luisa Ferida. E forse vale anche la pena ricordare, per ampliare questo complesso corto-circuito tra cinema e storia, che le vicende della coppia Valenti-Ferida sono state narrate sia in Sanguepazzo di Marco Tullio Giordana (2005) con protagonisti Luca Zingaretti e Monica Bellucci che nel precedente Gioco perverso, realizzato nel 1991 da Italo Moscati, con Fabio Testi e Ida Di Benedetto. Si segnala poi un breve cameo di Primo Carnera, simbolo della forza fascista all’estero.

Ci sono indubbiamente casi nella storia del cinema dove la qualità in sé di un lungometraggio passa in secondo piano rispetto all’interesse storico-sociale e storico-archivistico. E di certo questo è il caso di Harlem. La regia di Carmine Gallone, pur nella sua correttezza, non presenta infatti particolari punti di interesse: si segnalano alcune ariose carrellate nel salone principale del teatro, si può ammirare l’eleganza di un palcoscenico con ben tre pianoforti a coda, si apprezzano nel complesso le interpretazioni attoriali. Ma la scelta di regia su cui è incentrata tutta la vicenda sportiva appare, nel suo rigore, piuttosto castrante. Gallone sceglie infatti di non mostrare inizialmente gli incontri di boxe bensì di mettere in scena soltanto le reazioni del pubblico, lasciando spazio al fisico atletico di Girotti esclusivamente per gli allenamenti. Tutto ciò per dare maggiore enfasi a quell’ultimo incontro, che ci viene finalmente mostrato sul ring, mentre riecheggia sullo sfondo quella raffigurazione razzista del pubblico nero sugli spalti di cui si è detto.

L’intero film è dunque costruito su un climax, inizialmente infatti il razzismo di Harlem è relegato alla raffigurazione di un impresario ebreo più faccendiere che esplicitamente corrotto, mentre gli americani sono descritti come gangster oppure vengono dileggiati perché mettono la marmellata sugli spaghetti. Quanto agli afroamericani, ecco che i camerieri dell’hotel subiscono quello stereotipo linguistico stile Mamy di Via col Vento (1940) che sarà ancora duro a morire, ma di certo non possiedono né malizia né cattiveria. La situazione trova l’apice con il famigerato ultimo incontro, dove il pubblico nero scomposto e animalesco grida “a morte gli italiani” prima di essere zittito dall’eroe muscolare italico. Di fatto, come si è accennato sopra non si parla mai di fascismo, né di Mussolini, nemmeno in questa versione ricostruita del film. Il pugile incarnato da Girotti possiede un amor patrio e nel finale del film vuole tornare in Italia, ma tutto sommato per lui l’America è stata la terra delle opportunità e il vero nemico da abbattere (sul ring) non è tanto il gangster americano bensì il povero abissino che le guerre coloniali andranno a scovare (il film è ambientato nel 1935).

La via italiana al cinema di propaganda non fu dunque così soft come si pensa, ma nemmeno così aggressiva, e resta sempre il dubbio che abbia mai funzionato. Il dibattito è ancora aperto e l’argomento tutto da studiare. Nel nostro cinema dell’epoca, e anche in Harlem, troviamo infatti al lavoro personalità dalle credenze politiche o religiose differenti, molti autori tenuti in palmo di mano dal regime sappiamo che continueranno a lavorare – seppur alcuni con una pausa forzata – mentre il “popolo di trasmigratori” di cui parlava Mussolini prenderà l’aspetto, dopo la Seconda guerra mondiale, di un nuovo esodo migratorio verso la Terra dell’abbondanza. Rocky era già dietro l’angolo.

Info:
La scheda di Harlem sul sito de Il Cinema Ritrovato.
Il fascicolo della Censura di Harlem sul sito Cinecensura.

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