L’Arminuta

L’Arminuta

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Con L’Arminuta, sua opera terza, Giuseppe Bonito torna a mettere in scena le dinamiche familiari e i rapporti intergenerazionali. Lo fa prendendo l’aire dal romanzo di Donatella Di Pietrantonio e concentrando l’attenzione su una tredicenne che nel 1975 scopre di non appartenere alla famiglia in cui è cresciuta. Un dramma non privo di sincerità, canonico ed educato nella messa in scena. Alla Festa di Roma, dove ha vinto il premio BNL, e in sala.

Figlie

Agosto 1975. Una ragazzina di tredici anni viene restituita alla famiglia cui non sapeva di appartenere. All’improvviso perde tutto della sua vita precedente: una casa confortevole e l’affetto esclusivo riservato a chi è figlio unico e si ritrova in un mondo estraneo appena sfiorato dal progresso e a dover condividere lo spazio di una casa piccola e buia con altri cinque fratelli. [sinossi]

«Ero l’Arminuta, la ritornata. Parlavo un’altra lingua e non sapevo più a chi appartenere. La parola mamma si era annidata nella mia gola come un rospo. Oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza». Le parole di Donatella Di Pietrantonio centrano in poche righe il senso di un’esistenza eradicata, strappata alla sua natura proprio per essere ricondotta a forza in quella che è in realtà la sua natura. Ad animare lo spirito di Giuseppe Bonito, quarantasettenne salernitano che torna alla regia dopo aver riscosso un buon numero di consensi sia con l’esordio Pulce non c’è che con Figli, il film che avrebbe dovuto dirigere Mattia Torre prima di spegnersi prematuramente (e che Bonito ha diretto quando il lavoro di preproduzione de L’Arminuta era già in stato molto avanzato), sono proprio quelle parole, che dalla pagina scritta con grande diligenza e rispetto si trasformano in illusioni di movimento, in narrazione per immagini. Come in Pulce non c’è (a sua volta adattamento del romanzo di Gaia Rayneri) è una tredicenne a dominare la narrazione: nell’esordio di Bonito Giovanna, appena entrata nell’adolescenza, osservava la quotidianità della sorellina autistica Margherita, mentre la coetanea ribattezzata l’Arminuta deve confrontarsi con un mondo che non conosce, e di cui nulla sapeva prima di scoprire di appartenervi. L’occhio adolescente come terrazza privilegiata da cui guardare il mondo: in un universo cinematografico che fa così tanta difficoltà a confrontarsi con le pulsioni puberali lo sguardo di Bonito assume un valore a se stante, che supera anche determinate scelte poco felici, più prossime alla retorica.

Non è casuale, con ogni probabilità, che sia la prima parte quella in cui L’Arminuta sembra dimostrare con maggior forza il proprio senso: il desiderio e la paura della scoperta, quel mondo rurale osservato non senza spietatezza dall’occhio di una ragazzina cresciuta nella borghesia pescarese degli anni Settanta, una borghesia colta e dai modi formali, esplodono sullo schermo con convincente forza, grazie anche all’interpretazione di Sofia Fiore, diretta e infuocata. Resta questa l’intuizione più brillante di Bonito, che per il resto si affida a una dicotomia fin troppo facile: la modernità cittadina da un lato e il mondo rurale e campestre dall’altro, in un campo controcampo impossibile che trova la sua incarnazione nella protagonista, l’unica ad aver vissuto entrambi i luoghi, destinata dunque suo malgrado a restare una figura aliena, fuori da ogni schema, distante da qualsivoglia apparentamento reale. Altra dicotomia, quella tra mare ed entroterra, tra ipotesi di libertà e dispersione in uno spazio impossibile da contenere. Se il momento della “scoperta” è quello che Bonito riesce a rendere con maggiore vividezza espressiva, quando la “nuova” vita con la “vera” famiglia diventa prassi L’Arminuta rischia di scivolare in direzione di una prevedibilità eccessiva, dovuta anche alla reiterazione delle situazioni.

Allo stesso tempo, quasi sedotto dalla sua protagonista, il film perde di vista quasi del tutto il mondo adulto, che diviene suppellettile da spolverare solo per evidenziare di volta in volta qualche contrasto. Un peccato, perché ad esempio la sequenza in cui la protagonista torna a pranzo nella casa in cui è cresciuta, trascinandosi dietro l’amata sorellina, rappresenta anche il pugno allo stomaco più forte che L’Arminuta è in grado di sferrare. Perché allora non cercare una maggiore vis dialettica nel confronto generazionale? Affascinato dal paesaggio, e dalla figura pubescente che vuole occuparlo per trovare un posto al mondo da considerare “proprio”, Bonito sfilaccia qua e là la stratificazione dei personaggi, trovando sì una profonda verità nella sua protagonista ma allo stesso tempo dando l’impressione di limitarsi al rispetto della pagina scritta, e della volontà letteraria. Paradossalmente la libertà della parola di Di Pietrantonio ne risulta un pochino ingabbiata, circoscritta. Resta in ogni caso il racconto non accomodante di un mondo in sommovimento, tratteggiato con eleganza.

Info
L’arminuta, il trailer.

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