Banu
di Tahmina Rafaella
Banu segna l’esordio alla regia di un lungometraggio per la ventottenne azera Tahmina Rafaella, che interpreta anche il ruolo della protagonista, una donna in procinto di divorziare dal marito che a pochi giorni dall’udienza di separazione vede l’uomo toglierle il figlio avuto insieme. La sua lotta contro il tempo per ottenere giustizia è contrastata tanto dal maschilismo insito nella società quanto dalla generale esaltazione belligerante per la guerra nel Nagorno Karabakh. Un lavoro non privo di spunti d’interesse, ancora immaturo e che si adagia su una sceneggiatura troppo prevedibile. A Venezia in Biennale College.
Tre giorni e tre notti
Mentre il secondo conflitto nel Nagorno Karabakh infuria lontano da Baku, in Azerbaigian, Banu ha tre giorni per trovare qualcuno che la sostenga in tribunale contro il suo influente ex marito, Javid, che sta cercando di ottenere la piena custodia del figlio Ruslan sostenendo che soffre di disturbi psichiatrici. Banu intraprende un viaggio per trovare qualcuno che la aiuti in una società in cui l’attenzione di tutti è assorbita dalla guerra in corso. [sinossi]
Mentre lo schermo è ancora nero una speaker aggiorna gli ascoltatori sugli sviluppi del conflitto tra Azerbaijan e Armenia per il controllo del Nagorno Karabakh. Da qui si passa alla prima scena del film: la protagonista Banu, giovane donna in procinto di divorziare, cerca di spiegare a un recalcitrante poliziotto perché il fatto che il suo quasi ex-marito abbia portato via suo figlio senza il suo consenso possa essere considerato alla pari di un rapimento. Ma è un discorso che cade nel vuoto, visto che nemmeno l’intervento del legale della donna smuove il commissario dalle sue convinzioni. Inizia così Banu, opera prima della cineasta azera Tahmina Rafaella presentata alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia all’interno della sezione dedicata ai prodotti partoriti da Biennale College, e dunque portati a termine rimanendo nel budget garantito di 150.000 euro. Rafaella dimostra fin da subito di aver ben chiaro su chi e cosa focalizzare l’attenzione. Da un lato c’è la guerra, il suo carico di propaganda, ma i suoi esiti sono relegati al fuori campo; dall’altro c’è una società che nega alla propria popolazione femminile lo spazio di reale indipendenza dal maschile. Quello spazio che la regista cerca almeno di restituire al personaggio principale (che per di più interpreta lei stessa, che viene dalla recitazione visto che la si vide in Inner City di Ilgar Safat), ponendolo spesso al centro dell’inquadratura, unico elemento completamente visibile. Lo testimonia proprio la succitata sequenza della denuncia al commissariato, con il primo piano di Banu su cui la camera non stacca mai, né per mostrare il suo interlocutore (il commissario) né quando entra in scena l’avvocato, che occupa l’inquadratura solo dalla vita in giù.
Questa scelta, che tornerà in altre occasioni – anche nel finale, per esempio – sembra la più chiara e lucida presa di posizione registica di Rafaella, il cui sguardo invece altrove mostra qualche debolezza, teso com’è alla ricerca dell’espressione a tutti i costi: quella videocamera che ondeggia come fosse in alto mare a sottolineare lo stato di spaesamento della donna dopo una furibonda litigata con il marito si adagia su posizioni troppo semplici. Non che la sceneggiatura mostri una particolare profondità, a dirla tutta, dato che la trama segue in ogni momento la direttrice più evidente, e quindi anche quella più prevedibile: lo spettatore sa fin da subito dove andrà a parare il racconto, quali saranno i nodi che verranno al proverbiale pettine, chi tra i personaggi cambierà punto di vista e a causa di quali sommovimenti. Insomma, se si deve cercare l’intima necessità di un film come Banu questa non può essere di certo rintracciata nella sceneggiatura, e neanche nello sviluppo emotivo del personaggio principale. Perfino l’afflato femminista risulterebbe depotenziato se la giovane regista non alzasse il livello del discorso, ponendo sui due piatti della bilancia tanto il modo in cui viene vista (pre-vista) la donna all’interno della società azera quanto la propaganda bellica, che è a sua volta un attacco a una parte della società. Banu in casa parla russo, ma è per questo malvista dall’ex-marito e dalla suocera, e dopotutto anche il figlioletto le chiede perché non parli in azero. Bimbo che già afferma di odiare gli armeni, come gli viene con ogni probabilità insegnato anche a scuola (dove si educano i piccoli a considerare patria la terra come confine politico); sarà Banu a dover ribattere che non si deve odiare nessun popolo, e che i “cattivi” esistono ovunque. “Ho sempre pensato che il patriottismo sia amare il proprio popolo, e basta”, sottolinea la donna in un’altra occasione. Ecco, in questo tentativo di allargare la lettura e di stratificare il discorso si rintraccia l’anima più interessante di Banu, e si intravede la possibilità dello sviluppo di una carriera. Il resto, vale a dire quello strano incrocio tra melodramma familiare e pedinamento à la Dardenne, deve ancora trovare il proprio bilanciamento, il proprio equilibrio, forse persino addirittura il proprio reale senso.
Info
Banu sul sito della Biennale.
- Genere: drammatico
- Titolo originale: Banu
- Paese/Anno: Azerbaijan, Francia, Iran, Italia | 2022
- Regia: Tahmina Rafaella
- Sceneggiatura: Tahmina Rafaella
- Fotografia: Touraj Aslani
- Montaggio: Mastaneh Mohajer
- Interpreti: Emin Asgarov, Jafar Hasan, Kabira Hashimli, Melek Abbaszadeh, Tahmina Rafaella, Zaur Shafiyev
- Produzione: Noori Pictures
- Durata: 90'