Anhell69

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Anhell69 segna l’esordio al lungometraggio per il trentenne cineasta colombiano Theo Montoya, che mescolando realtà e finzione ragiona sulla propria generazione che, costretta a fronteggiare una società violenta, è diventata via via ectoplasmatica, quasi invisibile. Un’opera prima che riesce a fondere, con grande fluidità immaginifica, la memoria personale a quella collettiva. In concorso alla Settimana Internazionale della Critica di Venezia 2022.

Ballata dei vivi e dei morti

Un carro funebre percorre le strade notturne di Medellín, Colombia, mentre la voce narrante del regista ci introduce nella sua personale vicenda: nel 2017 l’autore cercava attori per realizzare un B movie sui fantasmi ambientato nella comunità gay e queer ma il film non è mai stato fatto. O forse è quello che stiamo vedendo… [sinossi]

Medellín, 2 milioni e mezzo di abitanti, capitale del cartello della droga guidato da Pablo Escobar che vi trovò la morte nel 1993, è lo scenario – prevalentemente notturno – di Anhell69, in concorso alla Settimana Internazionale della Critica nell’ambito di Venezia 79, un’elegia dolente che segna l’esordio nel lungometraggio di Theo Montoya. Classe 1992, laureato in cinema e audiovisivo proprio a Medellín, Montoya si mette in gioco in prima persona in un lavoro estremamente intimo ma tutt’altro che diaristico, rapsodico ma emotivamente logico, in cui chiama in causa non solo la propria vicenda e, con essa, quella della comunità gay e queer della seconda città della Colombia, ma anche e con orgoglio il cinema colombiano, periferico e lontanissimo dalle traiettorie più battute della ribalta internazionale. La peculiarità più evidente di Anhell69 è quella di lavorare con materiali audiovisivi differenti, generati per intenti differenti, e di “montare” tra loro tempi differenti, il tutto con una ammirevole fluidità, producendo con un tratto stilistico incubale e sognante un’affermazione poetica dotata di uno sguardo deciso, che si pone come un punto di condensazione della memoria personale e collettiva.

Nella prima scena vediamo un carro funebre nella notte cittadina, mentre una voce narrante ci introduce nel magma sentimentale di cui parla il film: la voce è quella dello stesso Montoya, che va a inquadrare subito camere da letto e gay club inframmezzati a materiale televisivo sugli scontri con la polizia e sull’annuncio dell’accordo del 2016 tra Governo e Farc (le forze armate rivoluzionarie comuniste) per poi prendere il filo di una narrazione filmica più volte interrotta e ripresa. Il regista nel 2017 aveva realizzato un casting per un B movie mai realizzato sui fantasmi, a tematica metaforicamente omosessuale, che chiamava in causa anche la violenza quotidiana delle strade della città, “orfana” di Escobar ma ancora piena di droga, la repressione dell’autorità e la discriminazione. Un film fantasioso e “lineare” nella trama di genere che ci viene raccontata e mostrata in seducenti scene girate appositamente per illustrarne le suggestioni visive. Nelle riprese del casting di alcuni anni fa, che tornano a punteggiare l’intero film, conosciamo poi i personaggi principali che rispondono alle domande del regista e raccontano di sé, delle loro aspettative, della loro vita, di come si vedono nel futuro. Tra loro c’è Camilo Najar, 21 anni, omosessuale, dedito al consumo di droghe, che sarebbe dovuto essere il protagonista del film. Il suo nickname sui social era “anhell69” (ancor prima che il film lo palesi, è chiaro da subito che Camilo non ha fatto una bella fine): le sue fotografie da Facebook scorrono sullo schermo, alternandosi a riprese del 2017 fatte da Montoya solo a lui, che è centro amoroso e simbolico. Ma la memoria personale del regista non è solo quella che ruota attorno alla comunità omosessuale, a un’ossessione desiderante o al film di genere che non ha fatto in un viaggio che mescola passato e presente. Il desiderio personale affonda in un altro desiderio, che è anche “sociale” perché si apre all’espressione di sé nel mondo: quello di fare cinema, ossia un rapimento radicato in un sostrato ancestrale, filogenetico. Anche su questo fronte dell’anima, le immagini di ieri si uniscono a quelle di oggi e il regista riporta in vita alcuni film colombiani che lo hannoo formato e conformato, inserendone sporadiche scene e citazioni: Pura Sangre (1982) di Luis Ospina, un horror su un serial killer di ragazzi chiamato “il mostro di Mangones”; Rodrigo D: No futuro di Victor Gaviria (1990) sugli adolescenti di Medellín, spostati e senza futuro, tra povertà, violenza e desiderio di riscatto (il film fu in Concorso a Cannes). Tra horror, uccisioni di giovani, disperazione, voglia di vivere, si muove non a caso proprio Anhell69, che rivendica dunque l’appartenenza a un mondo (quello dei drop out della città, tra cui studenti con aspirazioni artistiche proprio come il regista) e all’immaginario colombiano, incontro tra singolarità e collettività cui Montoya cerca di dar voce. Il regista Victor Gaviria, di cui si cita chiaramente un altro titolo (La vendedora de rosas, 1998, anch’esso in Concorso sulla Croisette), è non a caso l’autista del carro funebre il cui spostamento ritroviamo a intervalli regolari fino alla fine del film di Montoya.

Anhell69 risulta un lavoro certamente sulla comunità lgbtq+ di Medellín, ma soprattutto sulla riconnessione profonda con se stessi e il proprio percorso esistenziale e mnemonico, restituito tramite uno stile ibridato di immagini documentarie, interviste, immagini finzionali, scorci dal cinema del passato e talvolta riprodotto nel presente. Attraverso questo lavorìo del desiderio e della memoria, Theo Montoya – il cui primo lavoro è un cortometraggio ugualmente dedicato a Camilo Najar – riesce ad avvolgere lo spettatore in una spirale emotiva e culturale in cui spiccano, al fine, anche alcuni dati sociali se non sociologici. Tra questi ovviamente la presenza della droga nella città che fu sede del più noto narcotrafficante della storia, la totale assenza di padri nelle vite dei giovani in scena e, in maniera ancor più radicale, la centralità nella loro vita di donne divenute evanescenti, come se questi ragazzi fossero fantasmi, appunto, intrappolati in un’esistenza che non prevede per loro una collocazione. Notevoli e non oziose sono le suggestive panoramiche notturne sulla grande città, non immagini di pigro raccordo ma fotografia di un organismo superiore che ingloba le vite di tutti, i corpi distanti che popolano le strade o i gay bar. Se i club “undergound” della Colombia della seconda metà degli Anni Dieci sono popolati da riferimenti occidentali dei decenni precedenti (dalle magliette dei Sonic Youth ai punk agli adesivi di Britney Spears), le parole dei giovani sulla morte e sul suo senso inseriscono questa fantasmagoria – che di morte è profondamente innervata – in un contesto pienamente cattolico e centro americano. Lontanissimo da qualunque autocompiacimento kitsch, il corteo funebre che si snoda su più livelli simbolici e narrativi nel film approda a una rinascita, a una riconnessione vitale attraverso la quale creare e raccontare. La possibilità artistica è l’unica via di scampo e Anhell69 è l’elaborazione espressiva proprio di quel film di fantasmi che il regista aveva vagheggiato.

Info
Anhell69 sul sito della SIC.

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