Dogborn

Presentato alla SIC di Venezia 79, Dogborn della regista e sceneggiatrice svedese Isabella Carbonell è la fotografia di un mondo allucinato e di un divario sociale tra personaggi ricchi ed eccentrici che organizzano ‘cene eleganti’ di berlusconiana memoria, nei loro attici kitsch, e una miseria diffusa, dove manca drammaticamente il lavoro, cosa che spinge i personaggi a fare i corrieri di uno squallido traffico di carne.

Delivery service

Senzatetto e invisibili, due gemelli lottano costantemente per sopravvivere. Il sogno di avere una vera casa li porta a un’inaspettata opportunità di lavoro che sembra abbastanza semplice: trasportare merci da un punto A a un punto B. Ma quando le merci si presentano sotto forma di due giovani ragazze accade l’indicibile: tra fratello e sorella si crea improvvisamente una frattura. Nel corso di due giorni intensi, i gemelli sono costretti a prendere una decisione che cambierà la loro vita: fino a che punto sono disposti a spingersi nella ricerca di un futuro migliore? [sinossi]

Siamo in Svezia, in un ambiente urbano asfittico, illuminato al neon, nel periodo natalizio. Lo si capisce dalla presenza di alberi di natale addobbati e luminosi, rutilanti come tanti soprammobili di arredamenti kitsch di molti interni borghesi, con lo sfondo di musica synth pop. Questo è il contesto di Dogborn, diretto e sceneggiato dalla svedese Isabella Carbonell, presentato in concorso alla Settimana della Critica di Venezia 79. Un mondo, quello raccontato dal film, che si profila subito come una giungla, dove i protagonisti, due gemelli di sesso opposto, immigrati senza tetto, lottano disperatamente per la sopravvivenza, nella ricerca spasmodica di un lavoro. La premessa crea le condizioni per un’occupazione in un’attività che non molto lecita. Il loro amico Petri propone loro un lavoro come autotrasportatori con un furgone. Una cosa che sembra normale in questi tempi dove i servizi di corriere sono stati implementati. Petri spiega loro che devono consegnare semplicemente della merce. Si tratta di un traffico umano, di un trasporto di carne, praticamente di un mercimonio di schiave finalizzato, si presume, a ‘cene eleganti’, di berlusconiana memoria, nelle dimore di facoltosi clienti.

Lo sguardo smarrito, tutt’altro che ammiccante, di queste sex worker, o meglio sex slave, anche bambine, spesso dai lineamenti orientali, thailandesi, a volte vestite con le tipiche divise delle ragazze collegiali giapponesi, come in uno squallido cosplay erotico, dice già tutto in un film che si gioca sul non detto, sul non verbale. Non si parla in effetti espressamente mai di prostituzione, ma già dal primo trasporto si capisce tutto. La scena raggiunge l’apice della desolazione quando, durante il primo viaggio, una di queste ragazze cerca di sfuggire dal furgone ma viene riacciuffata dalla sorella trasportatrice. Una scena che si avvicina al cinismo della messa in scena proprio del connazionale Roy Andersson. Una volta consegnate al cliente, questo non fa che dirigerle nella giusta stanza, sprezzante. Inutile qualsiasi sguardo di pietà. La narrazione del film si gioca sui volti e sugli sguardi, tristi, rassegnati o sconvolti. Notevole per esempio la scena della ribellione della gemella, perché a questo si arriverà, che picchia il cliente con una stecca da biliardo: la mdp si fissa sul volto della prostituta ragazzina, mentre la rissa rimane sullo sfondo, sfuocata.

Dogborn è un racconto di degrado morale, un Taxi Driver moderno, dove il traffico di prostitute bambine si gioca con l’efficienza logistica dei paesi nordici, dove la società si costruisce su un profondo divario sociale, dove gli immigrati diventano risorse da spremere in tutti i modi, pedine di un sistema di mercificazione. Non può esserci ribellione se non rompendo l’omologazione, rappresentata dalla condizione stessa di gemello, e con l’alleanza tra gli ultimi e gli sfruttati.

Info
Dogborn sul sito della SIC.

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