Il placido Don

Primissimo adattamento realizzato nel 1930, quando dei quattro libri dell’omonimo capolavoro letterario di Šolochov erano stati pubblicati solo i primi due, Il placido Don di Olga Preobrazhenskaya e Ivan Pravov (più, non citato nei titoli originali, Mikhail Provor) scorre fra l’Avanguardia Sovietica degli anni Venti e il Realismo Socialista dei Trenta. Un’epopea familiare etnografica cosacca, fortemente fraintesa e boicottata dal Partito al momento dell’uscita, che affonda le radici del suo melodramma negli eventi storici per mettere in scena nell’orrore della Prima Guerra Mondiale la nascita di quella coscienza di classe che porterà ben presto alla Rivoluzione. Unico film sovietico alle 41me Giornate del Cinema Muto, è stato proiettato in un raro 35mm di proprietà dell’Eye Filmmuseum.

Il mulino del Don

Grigorij Melechov, discendente di una rispettabile ma non abbiente famiglia cosacca, vorrebbe sposare Aksin’ja. Tuttavia, lei è già sposata con Stepan e il padre di Grigorij obbliga suo figlio a sposare la ricca Natal’ja. Scoppia la prima guerra mondiale e, sul fronte di battaglia, Grigorij comprende l’ingiusta situazione, dal momento che i contadini e i cosacchi sono stati mobilitati solo per proteggere le proprietà dei ricchi. Tuttavia, lo sgomento personale ed esistenziale di Grigorij sta inesorabilmente andando verso una svolta inaspettata grazie agli imminenti eventi storici.[sinossi – Le Giornate del Cinema Muto 41]

Forse basterebbe la scelta di Olga Preobrazhenskaya e Ivan Pravov (con, non citato nei titoli originali, Mikhail Provor) di elidere totalmente dalla loro versione cinematografica de Il placido Don il celeberrimo episodio del tentativo di suicidio di Natal’ja, fra le parti più note e celebrate dell’omonimo e quanto mai fluviale romanzo del futuro premio Nobel Michail Aleksandrovič Šolochov, per testimoniare come ai registi interessasse ben più la nascita della coscienza di classe del protagonista Grigorij che le conseguenze drammatiche e drammaturgiche dei suoi strazi e conflitti amorosi. Eppure, al momento dell’uscita e nonostante l’immediato successo di pubblico, il film venne fortemente frainteso dai vertici del Partito, con il ritiro dalle sale per più di sei mesi e l’espulsione dei due registi dall’Associazione dei Lavoratori della Cinematografia Rivoluzionaria «per asservimento all’ideologia dello spettatore piccolo-borghese1». Un destino non certo raro per gli artisti, in quel 1930 che stava inaugurando proprio nelle forbici censorie il decennio che nella seconda metà sarebbe stato delle grandi purghe staliniane, tanto che pure mostri sacri come Pudovkin e Dovženko videro rispettivamente sparire dalle sale sovietiche Prostoy sluchay (in inglese, a seconda delle fonti, A simple case o Life is Beautiful) e il conclamato capolavoro (questa volta con titolo italiano) La terra, mentre perfino Ėjzenštejn, che nel corso dell’anno precedente aveva visto il suo «troppo formale» La linea generale tagliato, rimontato e re-intitolato dal regime Il vecchio e il nuovo, aveva deciso di accettare l’invito a Hollywood (e soprattutto in Messico) prima che il governo, diffidente, lo obbligasse ben presto a tornare in URSS per controllarne minuziosamente ogni lavoro fino alla morte.

Anche lo stesso Šolochov, del resto, dopo il plauso ottenuto prima nel 1927 con Il placido Don che dà il titolo all’intera tetralogia e poi due anni dopo con il suo secondo volume La guerra continua, avrà negli anni successivi diversi problemi per pubblicare gli altri e ancor più politici capitoli del suo quadripartito capolavoro letterario, riuscendo ad arrivare alle stampe del terzo e del quarto libro I rossi e i bianchi e Il colore della pace solo nel ’33 e nel ’40 con forti ritardi e per diretta intercessione di Stalin, mentre le invidie, le diatribe e le calunnie sull’effettiva paternità delle oltre cinquemila pagine della sua opera sarebbero andate avanti fino alle definitive autenticazioni del 1987 e del 1999. Un sospetto (in)fondato sul rapporto fra la strabiliante qualità del suo romanzo, ancora oggi considerato nella storia della letteratura russa al pari del Tolstoj di Guerra e Pace, e la sua giovanissima età, appena ventiduenne al momento della pubblicazione del primo fra i quattro tomi di un lavoro in apparenza troppo profondo, maturo, forbito e dettagliato per uno scrittore di così poca esperienza. Una saga monumentale, paragonabile a un corrispettivo sovietico da qualche parte fra I promessi sposi manzoniani e Il Mulino del Po che Bacchelli avrebbe scritto fra il ’38 e il ’40, capace di innestare la fantasia del racconto familiare in una cronaca storica, abitata anche da personaggi reali pronti a interagire con quelli fittizi, che si estende dalla Prima Guerra Mondiale fino alla Guerra Civile, passando per la Rivoluzione bolscevica che inevitabilmente sconvolse, forse più ancora delle altre, la società cosacca.

Eppure non è un caso la decisione dei due (più uno) registi del 1930 di mettere in scena, un anno dopo l’uscita del secondo episodio, solo la trama del primo libro, con il suo finale aperto e in cammino solitario verso il Sol dell’Avvenire mentre l’ultima didascalia avverte che è giunto l’Ottobre del 1917. Come a confermare, sin dal primissimo adattamento realizzato quando la stesura letteraria di Тихий Дон (questo il titolo originale, traslitterabile in Tichij Don) era solo a metà, come ognuno dei quattro libri fosse sin da subito in qualche modo autosufficiente, in qualche modo conclusivo nelle effettive conclusioni delle varie epoche storiche che vi si avvicendavano, nei radicali passaggi di tempo attraverso i quali Šolochov stava intessendo la sua lunga trama di cambiamenti sociali e di lotta di classe, di entusiasmi politici e di fughe d’amore, di assoluta esattezza etnografica e di repentini capovolgimenti della Storia. Un qualcosa di intrinsecamente cinematografico – e sarà infatti lunga, dopo questa prima sortita fra le pagine di Šolochov, la lista di successivi adattamenti parziali e totali, dai 340 minuti realizzati nel ’57 da Gerasimov fino al Quiet Flows the Don di Bondarčuk completato nel 2006 dal figlio, con cast occidentale capitanato da Rupert Everett e F. Murray Abraham. Ancor di più in un 1930 che stava vivendo la transizione (forzata) dall’Avanguardia Sovietica degli anni Venti al Realismo Socialista dei Trenta, istanze apparentemente opposte fra le quali Il placido Don, con i suoi (e)statici grandangoli sulla Natura e con i suoi griffithiani campi-controcampi fissi sull’azione contrapposti all’audacia sghemba delle sue inquadrature a mano e alle sue improvvise accelerazioni di montaggio quando deflagrano feste, risse, agguati e guerre, sembra in qualche modo porsi come ponte, bagnando con le sue acque tutte e due le sponde degli specifici filmici del tempo e riservando un ulteriore ramo quasi documentaristico alla perfetta ricostruzione sociale e antropologica della popolazione cosacca (con a latere quelle conviventi di origine turca e di origine ucraina) prima, durante e dopo il conflitto bellico, con i loro tipici orecchini e con le loro lotte intestine, con le loro tradizioni e con le loro contraddizioni, con il loro indomito coraggio e con il loro progressivo rendersi conto di essere carne da macello per gli interessi dei ricchi possidenti.

Già tre anni prima, nel 1927, Olga Preobrazhenskaya aveva realizzato sempre con la collaborazione di Ivan Pravov Il villaggio del peccato, primo sguardo sul mondo contadino e sulla Natura delle steppe russe di cui Il placido Don, sin dalle primissime inquadrature del prologo sull’alba e sulla nebbiolina che avvolge il fiume, sembra per molti versi una sorta di seguito ideale, o se si preferisce l’episodio centrale di una sorta di trilogia rurale che si chiuderà nel ’35 con l’ennesima co-regia nel sonoro Vrazhyi tropy. Ma è proprio qui, nel film che all’interno della retrospettiva sulla prima edizione di Venezia ritorna nello splendore del raro 35mm dell’Eye Filmmuseum di Amsterdam alle 41me Giornate del Cinema Muto di Pordenone, che il connubio fra l’afflato bucolico dei registi e le loro istanze politiche trova il definitivo punto di equilibrio nello scorrere di un melodramma familiare fatto di generazioni in fuga e di superstizioni popolari che tracimano nella violenza, di teneri innamoramenti e di tragiche perdite, di atroci sospetti e di viscidi traditori, di matrimoni combinati e di mani che si alzano, di donne pronte a emanciparsi e di ospedali militari, di sanguisughe appuntate sul petto e di battute di pesca fra le acque increspate del fiume in piena. Una storia di sentimenti e di povertà schiacciate dal calcagno dei ricchi, di ombre e di silhouette che si stagliano in controluce, di repentini cambi linguistici e di improvvise ribellioni, di fratelli ubriachi alla testa dei cortei nuziali e di provvidenziali dita in gola per liberarli della vodka, di lunghi istanti d’idillio (o di incomprensione) fra i girasoli e di straziate vertigini oniriche notturne mentre gli occhi non smettono di lacrimare, e il marito nel letto non riesce più a fare finta di dormire. Fino all’innestarsi dei cinegiornali d’archivio nella finzione, di un cinema nell’altro, di un sentimento nella Storia, questa volta con la S maiuscola, che continuerà dirompente a fare il suo corso, riplasmando nella presa di coscienza rivoluzionaria e nella nascita della lotta di classe qualsiasi scelta, qualsiasi contrasto, qualsiasi idea di identità. Qualsiasi sentiero su cui allontanarsi fino alla (non) fine del rullo in celluloide, sapendo già benissimo di amarsi troppo a fondo per non essere destinati a ritrovarsi poche pagine più avanti.

NOTE
1 Pëtr Bagrov, Tichij Don, su Il Cinema Ritrovato, Cineteca di Bologna, http://fondazione.cinetecadibologna.it/evp_Preobrazhenskaya_Pravov/programmazione/app_5093/from_2013-07-04/h_1430
Info
Il placido Don sul sito de Le Giornate del Cinema Muto.

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