Umberto Eco – La biblioteca del mondo

Umberto Eco – La biblioteca del mondo

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Con Umberto Eco – La biblioteca del mondo Davide Ferrario affronta la memoria di uno tra i più rilevanti intellettuali europei del Novecento partendo dai libri, dalla collezione sterminata di volumi che Eco aveva composto nel corso dei decenni. Un viaggio affettuoso in tre movimenti e un epilogo che permette di cogliere l’assoluta leggiadria dell’erudizione, e il suo valore da preservare nell’epoca della smaterializzazione digitale.

La misteriosa fiamma di Umberto Eco

La biblioteca privata di Umberto Eco era un mondo a sé: più di 30.000 volumi di titoli contemporanei e 1.500 libri rari e antichi. Davide Ferrario, che con Umberto Eco aveva collaborato per una videoinstallazione alla Biennale Arte di Venezia un anno prima della morte dello scrittore, ha avuto accesso alla biblioteca grazie alla fattiva collaborazione della famiglia. Ne è nato un documentario che non solo descrive un luogo straordinario, ma cerca di afferrare il senso stesso dell’idea di biblioteca in quanto “memoria del mondo”, come la definiva lo stesso Eco. [sinossi]

In uno dei passaggi d’archivio che puntellano Umberto Eco – La biblioteca del mondo, nuovo lavoro documentario di Davide Ferrario che dopo la presentazione alla Festa del Cinema di Roma viene distribuito nelle sale, l’intellettuale alessandrino suddivide la memoria in tre distinti segmenti. La memoria vegetale, vale a dire quella dei libri che esistono grazie agli alberi (ma un tempo si utilizzava anche il papiro, nota en passant Eco); la memoria organica, che è quella del cervello degli esseri umani; la memoria al silicio che è quella chimica, e tecnologica. Se la memoria organica è per sua natura intima, personale, non necessariamente condivisa, quella vegetale è l’unica a poter godere di un valore universale, ed è anche l’unica a dimostrare di resistere nel tempo: com’è infatti possibile affidarsi con serenità al mondo digitale, suggerisce sempre Eco, se una componente tecnologica come il floppy disk è già considerata obsoleta, pur avendo alle spalle solo qualche decina d’anni? È affascinante tornare a ricordare una figura fondamentale per lo studio dell’arte come Umberto Eco, venuto a mancare sette anni fa, attraverso il ricorso all’immagine di repertorio, al found footage, a ciò che è prettamente immateriale. È affascinante perché quest’atto estremo d’affetto sembra quasi contraddire in estrema sintesi la stessa speculazione echiana, che vede nel libro l’unico manufatto in grado di contenere in sé la memoria del mondo e dunque il senso stesso dell’umanità. In un altro passaggio del documentario Eco parla dei libri leggibili sull’iPad o su altri strumenti analoghi, e per quanto riconosca la possibilità di sopperire alla mancanza di un volume – lui stesso parrebbe aver fatto uso della tecnologia in aereo per rileggere l’ultimo libro della Recherche proustiana – non riesce a non far notare come agendo in quel modo “Non ho sottolineato, non ho fatto le orecchiette, non gli ho lasciato l’impronta della marmellata, che sono fatti importantissimi”. Leggere un libro nella sua naturale materiale e tangibile è la dimostrazione stessa dell’essere umani, perché mette in moto la curiosità.

Umberto Eco non è stato solo uno dei massimi intellettuali europei del Ventesimo Secolo, è stato anche e forse soprattutto un comunicatore, un connettore di conoscenza. Nella sua mescolanza di supposto alto e supposto basso dell’arte ha saputo cogliere l’urgenza di riportare la letteratura alla massa, rendendo quest’ultima conscia dell’assoluta accessibilità anche di ciò che come pregiudizio si ritiene elitario, distante, impossibile da affrontare nella contemporaneità. Ferrario parte con il piano sequenza divenuto celeberrimo nei giorni successivi alla morte di Eco – fu riproposto da molti telegiornali, e si propagò con grande rapidità sulla rete – e in cui si vede il letterato attraversare l’intera biblioteca privata composta da 1200 testi antichi e oltre 30000 volumi contemporanei solo per raggiungere un singolo testo, e sfogliarlo distrattamente. Da qui, facendo giustamente propria la memoria di un lavoro svolto insieme nel 2015 per il Padiglione Italia della Biennale Arte con una videoinstallazione in cui Eco parlava del concetto di “memoria”, il regista articola un discorso in tre capitoli e un epilogo. Non per tracciare una biografia di Eco, materia magari didattica ma che chiunque può far propria con una semplice ricerca online, ma per provare a far galleggiare sullo schermo alcune delle riflessioni più potenti di Eco sui rischi di una memoria affidata esclusivamente a internet, luogo in cui si è inondati da informazioni senza che vi sia posto alcun filtro per poterle assorbire e comprendere. In varie occasioni nel corso degli anni Eco è tornato su questo punto, facendo ricorso a Borges e al suo “Funes el memorioso” che tutto conosceva al punto da essere solo un povero scemotto; il concetto della biblioteca non è quello dell’accumulo di informazioni, ma della conservazione e dunque della scelta di ciò che si conosce. Una conoscenza cui nuoce il concetto di informazione. L’eloquio di Eco nei vari consessi pubblici in cui viene ripreso è brillante, suadente, addirittura spassoso, dominato da un’ironia sferzante. Qui si trova il nucleo di forza del film di Ferrario, al punto da rendere quasi ininfluenti sia gli interventi dei suoi cari e dei suoi collaboratori più stretti, sia – ancor più – quei sei segmenti in cui sei attori (Giuseppe Cederna, Paolo Giangrasso, Niccolò Ferrero, Walter Leonardi, Zoe Tavarelli, Mariella Valentini) interpretano altrettanti testi di Eco (per l’esattezza Perché Kircher?, Para, peri, epi, Come inizia, come finisce, Autori di quarta dimensione, Shakespeare era davvero Shakespeare?, e Il codice Temesvar).

La verità forse è che Eco non va interpretato, ma solo letto, quell’atto che è intimo, riflessivo, e che costringe l’essere umano a confrontarsi con un simbolo che diventa senso, con un segno che possiede la forza di esprimere la filosofia stessa del vivere. Ferrario, che pure compie un viaggio affascinante in territori mitici – quelli del mondo di Eco, del suo microcosmo che si fa macrocosmo – teme ogni tanto l’impasse, il rimanere impantanato nella parola, e quindi ricorre a lacerti di film (La presa di Roma di Filoteo Alberini, per esempio, o qualche documentario “d’impresa” sui bersaglieri) e lega il tutto con le composizioni di Carl Orff, altro intellettuale che fece della pedagogia – nel suo caso musicale – e della diffusione del sapere l’elemento centrale della propria opera. Molto senso sembrano avere le inquadrature di varie biblioteche sparse in giro per il mondo, da Torino a Stoccarda, da Tianjin a Città del Messico, fino a Imola, Ulm e l’abbazia di Wiblingen. Luoghi della memoria, e del silenzio, quel silenzio della conoscenza che si contrappone al rumore spesso barbarico perché prevaricante dell’informazione. Se leggere un libro diventa quasi un atto politico riscoprire e mantenere la memoria di Umberto Eco equivale a un atto di resistenza contro le derive ur-fasciste della società. Un atto di resistenza che passa attraverso l’ironia, il motto di spirito, l’assoluta semplicità. Perché non c’è nulla di complesso o incomprensibile nel sapere. Come Eco spiega di fronte al televisore al nipotino “Per dire la verità: 10 secondi durano esattamente 10 secondi”.

Info
Il trailer di Umberto Eco – La biblioteca del mondo.

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