John Wick 4

John Wick 4

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Bloccato per un anno a causa della pandemia esce finalmente John Wick 4, quarto capitolo della saga dell’invincibile killer-ronin, e che ora alza sempre più la posta del rappresentabile: se le location si moltiplicano, gli innumerevoli combattimenti tendono sempre più a saturare lo schermo, escludendo qualsiasi altro elemento non essenziale. Nulla di particolarmente innovativo per la saga, ma di sicuro le aspettative non vengono disattese.

Il guerriero della notte

John Wick trova una via per sconfiggere la Gran Tavola. Ma prima di guadagnare la libertà, Wick deve affrontare un nuovo nemico che ha potenti alleanze in tutto il mondo e ha mezzi tali da tramutare vecchi amici in nuovi nemici [sinossi]

Sarebbe dovuto uscire la primavere scorsa, John Wick 4, ma la distribuzione ha ritenuto opportuno attendere la fine dell’emergenza da COVID-19. E così ora la saga di John Wick, che ha avuto inizio quasi dieci anni fa, si arricchisce di un nuovo tassello che, come già i due sequel precedenti, alza ancora di più l’asticella: una messa in scena sempre più scatenata, ulteriore configurazione di un universo chiuso e autosufficiente, in moto perpetuo, precipitato in un’inestinguibile spirale karmica di azioni e conseguenze – lemma ricorrente negli scarni discorsi della comunità dei killer – figurativamente sospeso tra videogame e graphic novel e le cui pietre angolari sono la scenografia, le coreografie, il puro gesto. A partire dal primo sequel, entrava nel team (un team fino ad oggi sostanzialmente immutato) lo scenografo Kevin Kavanaugh, già collaboratore di Nolan, il cui contributo è determinante. Oltre alla New York perennemente notturna introdotta una volta di più da un’inquadratura zenitale, una New York non meno cupa di Gotham City, le location si moltiplicano perseguendo una formula “global” alla James Bond (Roma nel secondo episodio, Casablanca nel terzo, Osaka e Parigi nel quarto, solo per citarne alcune). Senza contare il ricorso sempre più sistematico a strutture hi-tech e minimal, in cui prevale l’uso del vetro finanche per gli interni: non solo teche e tavoli, ma pareti, scale, pavimenti, che danno origine a uno spazio dalla profondità virtualmente infinita, in cui l’individuo si moltiplica, si frantuma, si (dis)perde. Materiale per eccellenza, il vetro, anche per i giochi di luce e colore, che concorrono, assieme agli altri elementi del profilmico, in direzione di una stilizzazione estrema.

L’altro aspetto determinante è la pianificazione millimetrica delle coreografie dei combattimenti, anche questi sempre più estremi, complessi e iperrealisti. In perfetto equilibrio tra esigenze di spettacolo e funzione primaria (ovvero eliminare l’avversario nel minor tempo possibile), si basano su molteplici discipline marziali, fra cui judo, wushu, karate, jiu jitsu brasiliano, con prese di sottomissione più o meno letali e colpi d’arma da fuoco talmente a bruciapelo da sembrare un prolungamento delle tecniche a mani nude. Si combatte con ogni tipo di arma e oggetto, dalle pistole alle matite, dalla cintura dei pantaloni al nunchaku (con il quale, Keanu Reeves sfoggia qui una discreta padronanza). Si combatte in ogni dove e con ogni mezzo: in moto, a cavallo, in auto, e non parliamo dei classici inseguimenti, quanto di tamponamenti e investimenti (da capogiro tutta la sequenza girata nei pressi dell’Arco di Trionfo). Sempre però rispettando quello che è l’ingrediente fondamentale della saga, ovvero la verosimiglianza della lotta, la sua leggibilità agli occhi dello spettatore: anziché risolvere il tutto con convulse combinazioni e frammentazioni operate in sede di montaggio, la regia di Stahelski ancora una volta si articola ottimamente in una sintassi di piani che possono durare una decina di secondi o anche più, modificando giusto gli angoli di ripresa e preservando in tal modo sia l’integrità della performance che l’esecuzione delle tecniche.

Durando questo quarto episodio la bellezza di quasi tre ore, gli scontri e i duelli si susseguono ancora più numerosi dei capitoli precedenti a un ritmo spasmodico e sfiancante, mentre il body count si perde nella notte dei tempi. O, potremmo dire, nell’orizzonte degli eventi. Sì, perché l’essenza dell’epopea di John Wick somiglia a un buco nero che fagocita tutto ciò che non è essenziale (trame, dialoghi, psicologie), pressando e schiacciando archetipi e figure del cinema del passato – dal Frank Costello di Melville ai Guerrieri della notte di Hill (1979), dai ronin metropolitani della Nikkatsu, ai killer dell’heroic bloodshed hongkonghese – fino a ottenere figure bidimensionali, risucchiate in un vortice ipercinetico che sembra tendersi all’infinito, là dove spazio e tempo cessano di esistere e tutto si fa ripetizione e partenogenesi di un evento unico ma virale, un frattale, le cui uniche varianti si pongono nei termini di scale di intensificazione. Un buco nero rappresentato, diegeticamente, da un mondo-prigione, una nuova Matrix da cui non è possibile scollegarsi se non con la morte: la Gran Tavola, ovvero la comunità internazionale di assassini che, con i suoi lunghi tentacoli, esaurisce in sé l’intero universo conoscibile. E in cui non si uccide per vivere, ma si vive per uccidere.

In un tale universo, appiattito ma ultra dinamico, si muove il personaggio eponimo, sbozzato in pochi tratti essenziali: sempre vestito di nero, lo sguardo torvo, eastwodianamente ben poco loquace ma drastico (“I’ll kill them, I’ll kill them all”), John Wick è un essere fantasmatico e implacabile, un killer-ronin unstoppable, apparentemente invulnerabile, ma soprattutto immutabile, assolutamente privo di qualsiasi sviluppo psicologico o emotivo, inchiodato a quel motore primo che è il lutto per la moglie morta ormai da anni e anni. Così come non vi è alcuna plausibile giustificazione a gesti così precisi eppure così esorbitanti (non di rado lo vediamo sparare, non una, ma due o anche tre volte alla testa di un aggressore dopo averlo già atterrato). Gesti puri, appunto. Non è caratterizzato nemmeno, John Wick, da quell’autoironia che pervade gli eroi action alla Bruce Willis: la dà per scontata, la lascia trapelare con nonchalance, ma non la esibisce. Non ne ha bisogno, come non ha bisogno di una massa muscolare fuori norma: la sua cifra è l’intensità, l’inarrestabilità. E’ un essere dalle risorse infinite in grado di assorbire tutta l’aggressività e la potenza dei suoi avversari, di incassare colpi terribili e sopravvivere a cadute mortali e di rialzarsi ancora più motivato e micidiale, vieppiù meritevole di quel nomignolo che lo accompagna sin dagli esordi: Baba Yaga, l’Uomo Nero.

Perciò, se la figura dello spadaccino cieco Zatoichi viene apertamente omaggiata e presa in prestito per il Caine di Donnie Yen – un deuteragonista/antagonista di prim’ordine nonché personificazione di tutto un cinema dell’estremo oriente – in John Wick sembra di sentir vibrare l’eco di un altro personaggio nipponico: Izō Okada, il samurai/demone ritornato dall’aldilà per compiere la sua tremenda vendetta, personificazione della furia e del caos, al quale Takashi Miike dedicò nel 2004 uno dei suoi film più belli e vertiginosi. Nel cast dei comprimari, sono da segnalare inoltre le ottime performance fisiche del “samurai del crepuscolo” Hiroyuki Sanada nel ruolo di Shimazu, e della cantautrice Rina Sawayama in quello di sua figlia Akira, mentre Bill Skarsgård non sfigura nel ruolo del perfido Marchese a capo della Gran Tavola.

In conclusione, un’esperienza che può essere esaltante, soprattutto per gli amanti del genere, ma anche a rischio bulimia, per via della durata spropositata e di quella ripetitività seriale da videogiochi, cui unica variabile è la crescente difficoltà del livello successivo e il numero e/o la potenza dei nemici da sconfiggere. Tuttavia è un gioco consapevole, giocato a carte scoperte: come gli viene detto a più riprese da altri personaggi, John Wick non può esistere se non nei panni del killer, un habitus che si esaurisce nell’abito (possibilmente in kevlar). Sotto il vestito niente. Dietro la maschera, il simulacro di un simulacro di un simulacro, e così via…

Un’avvertenza: gli spettatori più curiosi restino seduti, poiché al termine dei lunghi titoli di coda (quasi dieci minuti) c’è una breve scena che fa da gancio a un possibile sequel o spin-off.

Info
Il trailer di John Wick 4.

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    di , Thriller incentrato sulla vendetta, debolissimo e inutile, granguignolesco e fine a se stesso, pura e sterile operazione di marketing per il rilancio di Keanu Reeves.