Ludendo docet

Ludendo docet

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Presentato al concorso di lungometraggi Nuove visioni del Sicilia Queer 2024, Ludendo Docet è il nuovo lavoro di Luca Ferri, strutturato come un gioco che coinvolge il critico Domenico Monetti, invitato a esporre un suo atlante sentimentale tra cinema e letteratura su un palco teatrale. Una riflessione sul cinema, sul suo eventuale futuro, sul rapporto con lo spettatore, minandone le sue stesse basi.

L’insostenibile leggerezza dei crostini toscani con fegatelli

Due burattini in un teatrino di figura presentano il film che andrà a seguire: è la performance di Domenico Monetti, un rituale ferreriano di commento libero sul cinema e sulla vita mentre trangugia ostriche e litri di vino. Qualche spettatrice commenta infastidita, uno strano figuro sorteggia delle domande. [sinossi]

È un esperimento moderno questo cinema di Luca Ferri, ci sarà forse un messaggio ma chi lo capisce? A esprimersi così è Margì, la moglie di Gioppino, le tradizionali maschere bergamasche, nell’incipit di Ludendo Docet, l’ultimo lavoro del filmmaker Luca Ferri presentato al concorso di lungometraggi Nuove visioni del Sicilia Queer 2024, dopo aver vinto il Premio Gabbiano a Bellaria. Ferri usa la tradizione della sua città d’origine, raffigurata nella scenografia dipinta della Piazza Vecchia, uno spettacolo di burattini, una forma d’arte antica e popolare, come presentazione, enunciazione e spiegazione di ciò che il pubblico sta per vedere. Si tratta di un gioco governato da regole cui si sottopone il critico cinematografico Domenico Monetti, già apparso in La casa dell’amore. Sul palco di un teatro nella bergamasca, il critico, mentre mangia due chili di ostriche accompagnate da due bottiglie di vino, deve rispondere a trenta domande, sorteggiate da una sorta di valletto, Vincenzo Turca, già maggiordomo in Dulcinea, estraendo da un’urna delle palline colorate. Quindici quesiti di natura culturale riguardanti omissis o culmen di alcuni antichi maestri e quindici sollecitazioni di natura privata e personale. Il monologo di Monetti è poi intervallato da dei controcampi filmati nella platea di un teatro di Firenze. Alla ricerca di un cinema che vada oltre l’umano, o che possa fare a meno dell’essere umano, Luca Ferri teorizza la possibilità di assenza del regista. Sono proprio i burattini a dircelo.

Mentre la camera fissa riprendeva la performance di Monetti, Ferri era a giocare a carte e a divertirsi nei bar del paese, informato via cellulare sull’andamento delle riprese da un collaboratore rimasto a teatro. I controcampi sono poi stati filmati e diretti dal regista Luca Sorgato, mentre il regista era in vacanza in Romania. In questo dispositivo ferreo (è il caso di dirlo), un meccanismo governato dal caso, le palline, e un pianosequenza di settanta minuti prestabiliti, non è necessario che ci sia un uomo dietro la macchina da presa, e anche il lavoro al montaggio sarà semplice, collocare gli inserti o poco più. Si tratta solo di stabilire una cornice, spaziale e temporale, e registrare in automatico ciò che si produce. Ludendo Docet consta di tre inquadrature principali, con qualche raccordo. La prima, il teatrino di marionette, è iscritta nel profilo dell’arco scenico con i lembi di sipario alzato, denunciando così lo spazio puramente teatrale. La seconda è ancora su un palcoscenico, dove avviene la performance di Domenico Monetti con Vincenzo Turca, ma il quadro si ritaglia all’interno dell’arco scenico. Qui la scenografia dipinta riproduce un tipico paesino lombardo, in cui si erge un campanile, un’agorà dove si può discettare e fare elucubrazioni. Uno spazio più cinematografico, dove si parla di cinema, il microfono è in vista, e una bottiglia, che richiama quelle sul tavolino di Monetti, è collocata sotto lo sgabello che sorregge l’urna. Una composizione dell’immagine che, ancora dopo Dulcinea, guarda agli spazi ozuiani costellati di bottiglie di sakè.

Domenico Monetti è un torrente in piena, nella sua prolusione, nel suo atlante sentimentale di cinema, letteratura e vita. Come non condividere l’amore per Valerio Zurlini o Giulio Questi o Zavattini? Il critico è capace di coniugare Ozu con Samperi, laddove lo sguardo dal basso del primo diventa l’erotismo adolescenziale del secondo, la prospettiva “swiftiana” di sguardi morbosi verso scollature o cosce della zia o della cameriera di turno. E assai condivisibile anche quella esecrazione per l’involuzione verso la depilazione del pube nel cinema porno contemporaneo, che più nulla ha a che vedere con la Golden Age degli anni Settanta/Ottanta. Quelli sì che traboccavano di quel vello e di quella peluria che rappresentano l’ultimo baluardo di animalità e sessualità della scimmia nuda, come l’etologo Desmond Morris definiva l’uomo, quella scimmia che, acquisito il dito opponibile, può uccidere un suo consimile tirandogli un osso in testa, e vincere così la contesa per una pozza d’acqua. Il cinema porno è ormai un qualcosa di asettico, ospedaliero, ginecologico. Ne consegue una sessualità sempre più sterilizzata, già espressa nel cinema di Ferri dalla figura glabra e depilata di Bianca di La casa dell’amore. Rimaneva solo João César Monteiro, omaggiato già nell’esergo del film e poi sempre da Monetti, a ergersi a poeta del pelo pubico vaginale nel feticismo del personaggio di João de Deus di La commedia di Dio.

Con Ludendo Docet, Luca Ferri ragiona sul cinema, sull’artificio del cinema e si interroga sul suo stesso cinema, sul suo ruolo nella società e su come questo possa essere digerito dal pubblico. Il cinema con un campo controcampo può superare il teatro e connettere un palcoscenico di un teatro della bergamasca con la platea di uno a Firenze. La dialettica spettacolo/spettatore, palcoscenico/platea, campo/controcampo, è già nell’incipit con i burattini: Margì si esibisce per noi come per Gioppino. Si può arrivare a Luca Ferri solo in una progressione di marginali del cinema italiano, lo dice chiaramente Monetti. Un percorso che si snoda tra i gemelli Mario e Fabio Garriba, Augusto Tretti, tutti passati per Fellini, e Franco Maresco prima e dopo Ciprì. Da (Ciprì &) Maresco, Ferri recupera la grande abbuffata, come quelle di Paviglianiti con l’anguria di Cinico TV, in versione sofisticata con ostriche. E mareschiano è anche quello spettatore silente che rimprovera le due signore per il disturbo. Le signore fiorentine rappresentano lo spettatore borghese, incapace di concepire il concetto di adattamento, aborriscono all’idea che Shakespeare possa essere trasposto in altri tempi e luoghi. La loro idea dell’arte è quella della pura esecuzione, è quella museale (una delle due dice di essere stata direttrice del Metropolitan Museum di New York) della filologia che congela una rappresentazione al tempo in cui è stata scritta, impedendole di dialogare con il presente, rendendola così innocua. Non possono capire il cinema di Luca Ferri che è un esperimento moderno, come dice Margì, ma anche un qualcosa di demoniaco come pure è rappresentato nel teatrino.

Un esperimento moderno che vuole essere giocoso, nel titolo e nella struttura stessa, nonché nell’atteggiamento di Ferri che evita le riprese, ma che viene visto come pesante. I concetti di fatica, pesantezza sono già nel dialogo tra i burattini. Lo scansafatiche Gioppino invita ad andarsene e farsi una passeggiata. Lo faranno le due spettatrici fiorentine che ripiegheranno verso una cena a loro dire leggera, con i crostini toscani con fegatelli. Il cinema dei nostri tempi è morto: lo dice Gioppino. Rimarranno gli spettatori come Pierino Aceti, dal film Pierino di Ferri, a preservarne la memoria. Nel contemporaneo non resta che fare esperimenti. Lo stesso excursus di Monetti, pur governato dalla casualità dell’estrazione, arriva alla decadenza oppure al cinema sperimentale. La progressiva depilazione nei film porno è un percorso verso l’entropia del cinema tutto. Nel contemporaneo non resta che l’esperimento gioioso.

Info
Ludendo docet sul sito di Lab80.

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