The Animal Kingdom

The Animal Kingdom

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A nove anni di distanza da Les combattants il clermontois Thomas Cailley torna alla regia con Le Règne animal (The Animal Kingdom), in cui il dramma si sposa al fantasy e al teen-movie per tratteggiare un romanzo di formazione che “insegni” il dovere alla coabitazione nelle differenze. Un lavoro affascinante, semplice ma diretto, che conferma il fertile immaginario del cineasta.

E l’animale che mi porto dentro

In un mondo colpito da un’ondata di mutazioni che stanno gradualmente trasformando alcuni esseri umani in animali, François fa tutto il possibile per salvare sua moglie, colpita da questa misteriosa condizione. Mentre alcune creature scompaiono in una foresta vicina, François parte con il figlio sedicenne Émile per una ricerca che cambierà le loro vite per sempre. [sinossi]

Chi conosce la velocità a cui può arrivare un lupo quando è lanciato nella corsa? Eppure potrebbe tornare utile saperlo, in un mondo che ha dimenticato come l’elemento naturale prosperi ancora sottopelle. Ha un incipit folgorante The Animal Kingdom (in Italia si è scelto di utilizzare per la distribuzione il titolo internazionale, che è poi la traduzione letterale dell’originale francese Le Règne animal), l’opera seconda del clermontois Thomas Cailley che arriva a ben nove anni di distanza dall’esordio, quel Les combattants – anche in quell’occasione per la distribuzione italiana si optò per l’anglofono The Fighters – che fece bella mostra di sé alla Quinzaine des réalisateurs di Cannes e poi arraffò qualche César, tra cui proprio quello dedicato alla miglior opera prima. Sì, l’incipit di The Animal Kingdom è davvero di quelli che catturano l’attenzione, con padre e figlio che stanno discutendo in macchina, fermi in un ingorgo, come naturalmente accade tra genitori e pargoli, non fosse che di lì a pochi istanti una “creatura” scappa da un’ambulanza a sua volta immobilizzata nel traffico. Un ragazzo con la faccia bendata e un’ala pennuta che gli spunta da un braccio si sbarazza di un paio di infermieri e si dà alla fuga. Nella Francia di oggi (ma non solo lì, si fa riferimento anche a uno studio norvegese) senza alcun motivo spiegabile sotto il profilo scientifico alcuni esseri umani si tramutano progressivamente in bestie, chi un uccello, chi una fiera, chi un polpo, chi una ranocchia – o forse un camaleonte; queste persone vengono rinchiuse in una struttura pensata ad hoc per l’occasione nel sud della nazione, ed è lì dunque che si devono recare padre e figlio della prima sequenza, con cane annesso, visto che la consorte dell’uomo e madre dell’adolescente è a sua volta una mutante.

Questo lo spunto da cui prende l’abbrivio il film di Cailley, che un anno fa ha aperto tra gli applausi Un certain regard sulla Croisette e ha fatto anche incetta di César la scorsa primavera. Un percorso di sopravvivenza che deve insegnare, o meglio re-insegnare a vivere ai protagonisti, seguendo dunque alcune delle traiettorie già presenti nell’opera precedente di Cailley, che continua a preferire le zone rurali, boschive e lacustri alle conurbazioni urbane: è proprio in una foresta che si andranno a nascondere infatti alcuni mutanti fuggiti dal centro durante uno spostamento in furgone, ed è lì che andranno a cercare Lana, la donna, François ed Émile Marindaze. Cailley è un regista particolare, ama muoversi sull’orlo che divide i diversi generi, e così The Animal Kingdom si dimostra mutaforma come i suoi protagonisti: parte come un ipotetico horror, si certifica fin da subito come dramma, per poi virare verso il fantasy in odor di Spielberg, con tanto di digressione da teen-movie – Émile, che a sua volta avverte i segni di una mutazione, si invaghisce ricambiato di una sua compagna di classe del liceo. Quasi come fosse una versione transalpina degli umori che tracima il cinema di J.J. Abrams, The Animal Kingdom si posiziona ad altezza adolescente, sia perché è il ragazzo il vero protagonista del film sia perché il tema portante, vale a dire l’accettazione del diverso, è svolto da Cailley (che lavora alla sceneggiatura insieme a Pauline Munier) senza eccessive stratificazioni, operando più sull’epidermide di ciò che avviene in scena che sulla reale sedimentazione di quelle suggestioni.

Ne viene fuori uno spettacolo avvincente nonostante qualche sottotrama appesantisca la struttura – ma oramai le due ore di durata sembrano un diktat per la maggior parte delle produzioni –, grazie anche alla notevole resa attoriale del cast, da Romain Duris ad Adèle Exarchopoulos (nei panni di una volitiva poliziotta locale che non approva l’isteria collettiva nei confronti di questi “mostri”) fino ad arrivare al giovane Paul Kircher, che i più attenti ricorderanno già in Winter Boy – Le Lycéen di Christophe Honoré e in Petite Leçon d’amour di Ève Deboise. Con uno stile molto fiabesco, che per l’appunto sembra riportare in auge l’immaginario di determinata produzione della Hollywood degli anni Ottanta, Cailley conferma le sue doti registiche, in grado di parlare con franchezza al pubblico senza dimenticare qualche raffinatezza inusuale per il mainstream. Le stesse qualità che si riscontrano anche nella bella colonna sonora partorita dalla mente del talentuoso Andrea Laszlo De Simone, che contrappuntano senza risultare invadenti le svolte di un coming-of-age sui generis, in cui il desiderio di libertà del giovane non è più legato ai vincoli familiari ma a un rifiuto perfino genetico della società, come sottolinea il finale. “Ma l’animale che mi porto dentro non mi fa vivere felice mai”, cantava Franco Battiato, in una delle più lucide riflessioni sull’egotismo: forse anche per questo è arrivato il momento di esteriorizzarlo, dandogli una nuova forma.

Info
Il trailer di The Animal Kingdom.

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