The Last Stand – L’ultima sfida

The Last Stand – L’ultima sfida

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Dall’evasione di Cortez in poi, The Last Stand prende quota e offre il meglio di sé, con un cocktail ubriacante a base di balistica, detonazioni, scontri corpo a corpo e inseguimenti.

Non passa il trafficante!

Gabriel Cortez, boss di un cartello della droga, riesce a fuggire alla custodia dell’FBI, rubando una macchina e dirigendosi a tutta velocità verso il confine messicano. Lo sceriffo Ray Owens, coi suoi aiutanti inesperti, dovrà impedire al fuggitivo di attraversare il confine… [sinossi]

«Sommerton tuonò: non passa il trafficante!» L’ultima celebre riga con la quale Ermete Giovanni Gaeta chiude la prima strofa della “Canzone del Piave” (non per i fatti storici ai quali si ispirano, ma al confine che ostacola il transito di una forza nemica) invita in questo caso alla più superficiale delle parafrasi, prestando il fianco all’apertura dell’analisi che ci apprestiamo a fare di The Last Stand, l’action-thriller a tutto gas che segna il ritorno davanti alla macchina da presa di Arnold Schwarzenegger, preceduto dalla riapparizione sul grande schermo nei due capitoli de I mercenari, dopo la lunga parentesi politica. La tranquilla cittadina dell’Arizona al confine con il Messico e il suo agguerrito sceriffo Ray Owens, interpretato dall’ex 38esimo Governatore della California, diventano, infatti, gli ultimi baluardi da superare che separano il più letale e ricercato narcotrafficante degli Stati Uniti dalla libertà, dopo una lunga prigionia e una pirotecnica evasione automobilistica a bordo di una Corvette ZR1 alla velocità di 500 km/h.

Una fuga che innesca un’adrenalinica e folle pioggia di piombo e dinamite, dove non si contano più i proiettili consumati, le esplosioni provocate, i morti ammazzati e i blocchi stradali forzati, con la quale Kim Jee-woon inonda il suo esordio cinematografico a stelle e strisce con il primo film in lingua inglese della sua carriera, nelle sale con qualche mese di anticipo rispetto a Stoker del connazionale Park Chan-wook, anch’esso attirato dall’irresistibile canto delle sirene hollywoodiane. Il cineasta sud-coreano trasforma un plot esile come un filo di nylon in un divertissement a tutto campo, che permette all’attore austriaco di scrollarsi di dosso tutta la ruggine accumulata negli anni di lontananza dai set e al regista stesso di mettere in mostra la versatilità e l’impatto visivo che caratterizzano il suo stile. A lui e alla sua pellicola americana servono una trentina di minuti circa per carburare e prendere confidenza con la componente spettacolare dello script, prima di premere a tavoletta il pedale dell’acceleratore e passare dalle parole ai fatti. Dall’evasione di Cortez in poi, dunque, l’operazione prende quota e offre il meglio di sé, grazie alle numerose scene d’azione di ottima fattura che portano sullo schermo un cocktail ubriacante a base di balistica, detonazioni, scontri corpo a corpo e inseguimenti: dall’evasione di Cortez che richiama S.W.A.T. di Clark Johnson alla sparatoria notturna a pochi km di distanza dalla fattoria, passando per la sensazionale corsa automobilistica nel campo di mais. Il tutto supportato da un sarcasmo accentuato che mette nelle condizioni il caro vecchio Schwarzy di non prendersi mai sul serio e dare libero sfogo a un’intelligente autoironia che lo diverte e soprattutto fa divertire lo spettatore di turno. In tal senso, non è la parodia di se stesso, ma gioca a farla.

Kim asseconda in tutto e per tutto tale impostazione, esasperando i toni sin dal primo fotogramma utile. Azione e comicità diventano una cosa sola e viaggiano in completa simbiosi, con Schwarzenegger a fare da collante come già accaduto in passato con Un poliziotto alle elementari, Last Action Hero o Una promessa è una promessa. Da parte sua, il regista sud-coreano mette da parte il lato oscuro del suo cinema, quello che lo ha portato a firmare prima l’horror isterico che vira al melodramma Two Sisters, due anni dopo il crudo noir dal titolo Bittersweet Life e poi l’inquietante revenge movie I Saw the Devil, dove contano l’atmosfera più che l’azione, gli spazi esteriori più che il mondo interiore dei personaggi. Piuttosto si torna ai toni decisamente più soft e spregiudicati degli esordi di The Quiet Family e The Foul King, ma soprattutto del recente Il buono, il matto, il cattivo. Proprio con l’atipico western in salsa orientale del 2008, The Last Stand condivide non poche affinità elettive, a cominciare dal mix senza soluzione di continuità di generi e registri che si riflette sullo schermo in modalità random. La ricetta è semplice: 1/3 di action, 1/3 di black comedy e il restante 1/3 di western; quest’ultimo espresso mediante l’estetica di certe inquadrature rievocative (il conflitto a fuoco nel centro di Sommerton e la resa dei conti finale sul ponte). Il risultato è un manierismo compiaciuto e assolutamente consapevole, ma mai e poi mai fine a se stesso, che si tramuta in un valido esempio del modo con cui un regista di innegabile talento, come riteniamo sia Kim Jee-woon, possa ricorrere alle convenzioni di più generi e cambiarle per esprimere e ottenere quello che vuole.

Info
Il sito ufficiale di The Last Stand.
The Last Stand su facebook.
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