Tepepa

Rivoluzione messicana ed etica della rivoluzione. Tepepa di Giulio Petroni è un bell’esempio di “tortilla-western” all’italiana, una tragedia dell’ambiguità animata da personaggi profondi e malinconici, calati in un contenitore multigenere di spettacolo e avventura. Protagonisti Tomas Milian e nientemenoché Orson Welles. In dvd per CG Entertainment.

Nel Messico di inizio Novecento a capo del quale si è messo Francisco Madero dopo aver rovesciato Porfirio Diaz dal potere, le aspettative e gli ideali della Rivoluzione sono stati ampiamente disattesi dal nuovo governo che si è insediato chiedendo ai campesinos di abbandonare le armi. Tra i ribelli più irriducibili vi è Tepepa, condannato a morte per essersi opposto alla repressione del nuovo potere. Il gelido e spietato colonnello Cascorro ne ha stabilito l’esecuzione, ma Tepepa è salvato in extremis dall’intervento dell’inglese Henry Price, medico che si è messo sulle tracce di Tepepa per ragioni poco chiare. In realtà Price ha tratto Tepepa in salvo perché vuole ucciderlo di persona, inseguendo una propria vendetta individuale. Tra Tepepa, Cascorro e Price si avvia una sequela di alleanze e tradimenti, mentre Tepepa tenta di ridare nuova vita al movimento rivoluzionario… [sinossi]

Com’è ben noto, nella rilettura italiana del genere western fece la sua comparsa, nella seconda metà degli anni Sessanta fino ai Settanta inoltrati, un’ulteriore declinazione, quella del cosiddetto “tortilla-western”, dedicato cioè a narrazioni intorno al tema della rivoluzione messicana – pure Sergio Leone disse la sua sul tema con Giù la testa (1971), venuto quasi da buon ultimo dopo una serie di titoli pregressi di altri autori. Tra questi spicca Tepepa (1969) di Giulio Petroni, che negli anni ha acquisito una propria aura leggendaria, anche in termini un po’ extrafilmici, per l’accoppiata di protagonisti Tomas Milian-Orson Welles. Non è del resto l’unico caso in cui Welles si sia concesso a produzioni “di vaglia” in veste d’attore, in giro per il mondo, per finanziare i propri tormentati progetti cinematografici: solo per restare nell’ambito delle sue esperienze di coproduzione anche italiana, basti pensare a L’isola del tesoro (1972) di John Hough e Andrea Bianchi, dove Welles vestì i panni di Long John Silver. L’effetto, almeno il più epidermico, è spesso in queste occasioni quello di vedere Orson Welles che gioca sul sottile confine ironico tra il prendersi sul serio e il suo contrario – anche se Petroni riferirà riguardo alla realizzazione di Tepepa che il set fu pessimo, con ampie responsabilità proprio del Maestro.
Come anche in altre occasioni di Welles in veste d’attore, pure in Tepepa le sue apparizioni sono sapientemente centellinate, sulle orme di un profilo umano che si arricchisce di un’impassibile autocoscienza, un Male gigantesco, nella corporatura fisica, nella sobria perentorietà dei suoi brani di dialogo, ben consapevole dell’abisso sul quale si trova. Così le apparizioni del colonnello Cascorro in Tepepa hanno il paradossale effetto di profilarsi come malinconiche aperture di un Fato ineluttabile, che ben si attagliano alla temperatura di un singolare tortilla-western.
La macrostruttura resta infatti ben piantata nei luoghi narrativi del western di casa nostra alle prese con la rivoluzione messicana, così come restano ben percepibili gli umori anarcoidi e sessantottini sottesi a operazioni di questo tipo – non sarà un caso se, accreditato a fianco di Franco Solinas alla sceneggiatura, troviamo addirittura il cantautore militante Ivan Della Mea.

In più di un’occasione emerge in piena evidenza l’utilizzo del racconto messicano come strumento di una riflessione allegorica, che non solo si appunta sul consolidato tema del tradimento della Rivoluzione, ma sembra voler creare anche diretti rimandi con la storia italiana tramite precise scelte audiovisive – impossibile non leggere in quella collettiva deposizione delle armi un richiamo alla fine della guerra di Resistenza italiana, con l’ordine più o meno perentorio di avere fiducia nei confronti di un nuovo potere costituito.
La delusione e il tradimento degli ideali informano il racconto di Tepepa secondo chiavi fortemente popolari, tradotte in un linguaggio immediato di cinema di largo consumo, permeato innanzitutto di un sentimento di rivalsa anarchica e dal basso nei confronti di un potere multiforme e immortale, capace di rigenerarsi in eterno sotto nuove forme una volta terminata l’illusione e l’urgenza rivoluzionarie. La Rivoluzione rimane al centro di una riflessione immediata e profonda al contempo, che talvolta sembra tradursi in puro canone di genere, altrove sembra ragionare con acuta intelligenza intorno al problema dell’etica rivoluzionaria.
Giulio Petroni lascia infatti cadere un’ombra di ambiguità un po’ su tutti i suoi protagonisti, a cominciare dallo spavaldo Tepepa di Tomas Milian, nel cui passato si nasconde un episodio di violenza che è il principale nodo drammatico intorno al quale si sviluppa il racconto, e nello stesso istante è anche strumento di analisi su etica e rivoluzione. Petroni si muove dunque su filoni ben noti alla sua coeva realtà cinematografica, ma adotta una propria modalità di allentamento narrativo in direzione di un approccio pensoso e meditativo. Nella sua ampia durata (oltre 2 ore, che al momento della sua uscita saranno ampiamente sforbiciate dal produttore Alfredo Cuomo e anche dai distributori americani della Paramount, ostili soprattutto al finale mitizzante per la figura di Tepepa) il film di Petroni ha un andamento sui generis, in cui la fabula, piuttosto stringata ed elementare, è dilatata tramite una discesa in profondità nei suoi protagonisti.
Non vi è molto in comune con le dilatazioni epiche di Sergio Leone, che spesso si avvalgono dell’espansione di dettagli e rumori o si affidano all’amplificazione musicale di Ennio Morricone, bensì vi è un approccio al racconto a suo modo più tradizionale ma fortemente centrato sullo scavo delle figure umane narrate, rappresentate al contempo in azione e riflessione, e costantemente interrogate nel loro peso morale.

I ritmi del racconto sono talvolta dispersivi, con uso abbastanza singolare dei flashback – interrompono lungamente la narrazione del “presente” e nel pieno del corpo del racconto. In tal senso le tre principali sezioni di racconto dedicate al passato (ciascuna adotta di volta in volta il punto di vista dei tre protagonisti) sposano nettamente il segno dell’ambiguità: la prima è portatrice di dubbio sul nuovo potere incarnato da Madero, la terza (le testimonianze riferite da Cascorro sul comportamento di Tepepa) getta un cono d’ombra sull’integrità di un eroe popolare, narrato nei suoi atti più violenti. Ma il più efficacemente espressivo è il flashback tutto interno al personaggio del dottor Price, che non si delinea nemmeno come una vera e propria parentesi nel passato del racconto, bensì come un’alternanza tutta intrapsichica tra presente e proiezione mentale. Partendo infatti dalla scatenata danza di Tepepa con una donna su indiavolati ritmi messicani, Petroni vi alterna l’immagine al ralenti, in tutt’altro contesto musicale, di Tepepa alle prese con la donna amata dal dottor Price. È il primo annuncio, il più pregnante, della problematicità della figura dell’eroe, e dello scontro tra pubblico e privato. In sostanza Petroni e Solinas sembrano porre interrogativi sul prezzo dell’eroismo, sul peso schiacciante dei tradimenti della coscienza che un alto ideale può comportare.
In una selva incrociata di delazioni, nessuno esce del tutto pulito e indenne. Se “El Piojo” vende Tepepa ai nuovi governativi per lacrimevoli ragioni private, dal canto suo Tepepa risponde al tradimento con una rapida e irriflessa vendetta. Ma a pesare come un macigno nell’economia della figura di Tepepa è la violenza perpetrata ai danni della donna: una violenza a suo modo “ideologizzata” (lo stupro del proletariato ai danni degli spietati latifondisti), che tuttavia è anche narrata nella sua piena sostanza di atto gratuito e sostenuto da una visione retriva nei confronti del genere femminile. S’innesta qui, in uno splendido prefinale, il conflitto etico più penetrante di Tepepa, quello tra l’altalenante dottor Price e il Tepepa ferito a morte su un’improvvisata tavola operatoria.

Il dottor Price è senz’altro la figura più combattuta e tormentata del racconto, sempre sulla soglia tra un’adesione spontanea alla rivoluzione e il desiderio di vendetta. In quel prefinale il conflitto è portato ai suoi estremi: quanto si è in grado di abbandonare la propria dimensione privata, fatta anche di ferite insormontabili, in nome di un ideale? Si può passare sopra alla violenza subita in ambito di affetti privati e individuali per sposare un ideale più alto e collettivo? Si può accettare, in tal senso, una figura eroica anche quando se n’è scoperto il risvolto più tetro e deprecabile, sia pure dovuto a una palese incultura? Tramite un film anche profondamente vincolato al genere, di fatto Petroni, Solinas e Della Mea spingono i confini espressivi verso una riflessione universalizzante sul conflitto tra etica individuale e ideali collettivi.
Coerentemente alle proprie scelte, Tepepa assume i tratti lungo il suo esteso percorso di una tragedia dell’ambiguità, che come tale si chiude con la morte un po’ inaspettata di tutti e tre i suoi principali protagonisti.

Quel finale tanto inviso alla Paramount vede ripartire gli straccioni a cavallo, di nuovo lanciati verso la Rivoluzione nella memoria di Tepepa, che assurto a eroe serve da ulteriore pungolo alla battaglia – niente è più utile a una Rivoluzione della creazione di un eroe, del tutto spogliato della sua realtà umana, storica e contingente e proiettato in una dimensione ideale in cui decade qualsiasi ambiguità sulla sua condotta. Ma si è dovuti passare comunque attraverso il Male, ineluttabilmente e tragicamente, per cementare una motivazione collettiva. In una sorta di bagno iniziatico, pure il piccolo Paquito, ideale erede di Tepepa e prosecutore della sua battaglia, ha dovuto trovare il proprio esordio nella lotta tramite l’omicidio.
Forse complice la presenza fortemente suggestiva di Orson Welles, nelle cornici di un professionale cinema di genere pare d’intravedere gli immortali grovigli morali di Shakespeare, in cui Male e Bene, comico e drammatico convivono passo dopo passo. Perché Tepepa, oltre a profilarsi come una penetrante riflessione sui tragici limiti dell’etica, è al contempo anche puro e semplice intrattenimento, perlopiù affidato alla consueta maschera guascona, appassionata e malinconica di Tomas Milian, che qui doppia se stesso in un ispanico italiano per una delle sue migliori prove attoriali.
Petroni e i suoi sceneggiatori allestiscono un ampio e polifonico spettacolo in cui l’avventura, il comico e pure il melodramma si radicano in uno scenario connotato da una certa accuratezza storica – le avventure di Tepepa si collocano al termine della prima fase rivoluzionaria in Messico, con diretta rappresentazione in scena di personaggi storici come Francisco Madero. La macrostruttura narrativa prevede insomma l’innesto del probabile in una cornice di “verità storica” piegata all’intrigo e all’avventura. E a fianco di lunghe sezioni di confronto tra i personaggi si aprono anche pagine molto riuscite nell’ordine del puro e semplice spettacolo attrazionale – basti pensare all’attentato ai danni di Tepepa provocato da “El Piojo”, e soprattutto allo scontro finale tra i governativi e i rivoltosi, sequenza molto lunga e ben orchestrata nei suoi effetti, introdotta da una splendida suspense sonora dovuta al risuonare dei campanelli delle capre.
Un cinema anche di consumo che tenta però l’epica muovendo masse estese di comparse, sposando un bel contributo musicale di Morricone, fiero e guerresco, curando molto la composizione dell’inquadratura nei suoi effetti prospettici e alternando al contempo una narrazione intima e molto concentrata nel racconto dell’individuo. Ché se l’ideale è alto, l’uomo resta sempre piccolo, imperfetto, fallibile. Pure l’eroe.

Extra: “Lunga vita agli eroi straccioni!” (24′ 47”), introduzione al film a cura di Valentina Pattavina.
Info
La scheda di Tepepa sul sito di CG Entertainment.
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