C’eravamo tanto amati

C’eravamo tanto amati

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Il capolavoro di Ettore Scola, C’eravamo tanto amati, punto di arrivo e culmine della commedia all’italiana. Un racconto corale mai più eguagliato, con un cast stellare.

Picchiapò, picchiapò… Qu’est ce que c’est ça?

Dopo la guerra tre amici ex-partigiani, nonostante l’affetto che li unisce, prendono strade diverse: Gianni, che non ha mai nascosto le sue ambizioni, diventa avvocato a Milano; Antonio, uomo semplice e spontaneo, fa il portantino a Roma; Nicola, intellettuale e professore di Nocera Inferiore, tenta di affermarsi come critico cinematografico. Passa il tempo e Gianni, trasferitosi nella capitale, incontra Antonio, ora fidanzato con un’avvenente attricetta di nome Luciana. Antonio non si avvede della passione che matura tra i due. Ma Gianni tradisce anche Luciana e l’abbandona per unirsi alla figlia di un industriale ricco e volgare. Intanto Nicola partecipa al telequiz “Lascia o raddoppia”… [sinossi]
– Insomma… boh!
– Eh, ma che vuol dire boh?
– E che vor di’ boh? Vor di’ boh! Mica è ‘a targa de Bologna! […] Che voi di’? Mejo di’ boh!
– Eh, è a forza di boh che siamo arrivati a questo punto!
Che conclusione è boh? È una conclusione ambigua!
– Ambigua ma aperta!
– Ricominciate? Ah…
– Aperta a che? Ma che significa boh?
– Significa boh! È una paroletta semplice, magari dialettale,
che non vorrà di’ niente, ma che potrebbe pure esse minacciosa.
– Eh, minacciosa!
– Sì, proprio minacciosa!
– Ma che fai, mi minacci co’ boh? Famm’ capi’…
– Scusa tanto, ragioniamo…
– Ma che vo’ ragiona’!
– Ma se ti dico di ragionare ragioniamo, no?
– Vabbè, ragioniamo…
– Ma no con quel tono, sennò me fai arrabbia’ subito…
– No, no, vabbè, ragioniamo!
– No, basta. Co’ te ‘n ce ragiono!
– Lo vedete come siete? voi a parole volete ragionare, siete settari…
– Ah, non comincia’ co’ “voialtri” perché io ricomincio co’ “noialtri”!
– No, è così, voialtri non volete ragionare.
– Ma aspetta! Scusa, ‘ndo vai?
– Allora ricominciamo: che significa boh?
– Ma come che significa boh? Te l’ho detto adesso, te l’ho detto!
– No, perché quando si tratta di ragionare tu ti ci metti,
ma poi quando si tratta di decidere davvero…
– Ah, annamo va’!
Dialogo tra Antonio e Nicola (e Luciana), dal film
Eravam tutti pronti a morire
ma della morte noi mai parlavam
parlavamo del futuro
se il destino ci allontana
il ricordo di quei giorni
sempre uniti ci terrà.
Armando Trovajoli, E io ero Sandokan

Tra gli innumerevoli film prodotti in Italia tra il secondo dopoguerra e il terzo millennio e tesi alla ricerca del “romanzo popolare”, nessuno è in grado di eguagliare l’abbagliante potere visivo e il tessuto narrativo di C’eravamo tanto amati. Anche capolavori indiscutibili come Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli e Una vita difficile di Dino Risi, che nel 1961 raccontava la tentazione capitalista del boom attraverso il trasformismo e la presa di coscienza del Silvio Magnozzi interpretato da Alberto Sordi (figura che in qualche modo preconizza il film di Scola, contenendo al suo interno elementi che saranno propri sia del Gianni Perego incarnato da Vittorio Gassman che dell’Antonio di Nino Manfredi), non riescono a elevarsi a elegia di un’intera generazione, preferendo concentrare la propria attenzione su pochi personaggi, costretti a scontrarsi con l’Italia che li circonda. Non è un caso che Jean A. Gili, critico d’Oltralpe appassionato del cinema italiano a tal punto da fondare nel 1983 il Festival du film italien d’Annecy, parlando del film abbia avuto modo di scrivere che uno dei suoi punti di forza sia rintracciabile nella volontà di testimoniare il «vigore popolare di una società che vuole ancora lottare nonostante la disgregazione di un paese dopo trent’anni di incuria politica». Sarebbe fin troppo facile, persino scontato, dover sottolineare come C’eravamo tanto amati, a quasi quarant’anni dalla sua uscita nelle sale cinematografiche italiane, rappresenti in modo palese e monolitico il distacco tra l’epoca d’oro della nostra produzione e la crisi (economica, ma ancora prima di idee) che ha attanagliato la stragrande maggioranza dei film battenti bandiera tricolore nel corso dell’ultimo trentennio.

Il primo dettaglio che balza immediatamente agli occhi degli spettatori è lo strabordare di idee e di intuizioni che tracimano da ogni singola sequenza del film di Scola, a partire dalla scelta narrativa, scandita dalle voci narranti che si danno il cambio di volta in volta, quasi si trattasse di una corsa a tappe: il comunista Antonio, il socialista voltagabbana Gianni, l’illusa e fragile Luciana, l’intellettuale sconfitto Nicola, l’emancipata Elide, figlia del costruttore fascista Romolo Catenacci, paradossalmente prigioniera della propria condizione sociale. Sono loro le voci che dipanano la storia, che è poi in fin dei conti la storia d’Italia e del suo cinema. Perché in C’eravamo tanto amati la cultura mescola l’alto (Strano interludio di Eugene O’Neill, visto a teatro da un’entusiasta Luciana e un assai più provato Antonio) e il basso (Lascia o raddoppia?, con tanto di conduzione affidata anche nella finzione a Mike Buongiorno) senza bisogno di abbellimenti ulteriori, ed è proprio lei a scandire i passaggi tumultuosi dell’Italia dalla lotta antifascista al boom economico fino alle proteste scaturite dal maggio parigino, attraverso i quali si muovono i personaggi, costretti a confrontarsi con amori, tradimenti, passioni mal riposte e delusioni. Senza mai cedere al fascino della retorica, Ettore Scola firma il compendio dell’intera esaltante stagione della commedia all’italiana: quando tornerà a confrontarvisi, pochi anni dopo, con l’eccellente Brutti, sporchi e cattivi, il suo volto sarà già contratto da un ghigno grottesco, deformazione del reale e sua esasperazione che in C’eravamo tanto amati trova forma solo nel personaggio di Catenacci, traffichino romano rozzo e intrallazzatore, cui dà vita uno straordinario Aldo Fabrizi, in una delle sue interpretazioni più memorabili (“ma io nun moro!”, sentenzia a mo’ di minaccia nei confronti del genero Gianni, arrampicatore sociale dalle mire ben più alte, in un dialogo che fotografa con preoccupante precisione il passaggio di consegne della classe dominante, protesta verso un “nuovo” all’apparenza ripulito ma in realtà altrettanto laido e manipolatore).

Come si diceva, C’eravamo tanto amati è anche un atto d’amore, sincero e mai pedante, nei confronti del cinema italiano: a partire dalla celebre sequenza del cineforum di Nocera Inferiore, dove il dibattito al termine della visione di Ladri di biciclette si trasforma in uno scontro aperto tra l’intellettuale Nicola e la negativa lettura del capolavoro di Vittorio De Sica da parte dei democristiani del paese (“Nocera è inferiore perché ha dato i natali a individui ignoranti e reazionari come voi tre!” è la rabbiosa protesta del professore), il film si configura come un viaggio anche estetico nella memoria recente della produzione nazionale. Passando dal pauperistico bianco e nero  della prima metà al colore, in una sequenza da consegnare agli annali (mentre i protagonisti prendono strade diverse, allontanandosi gli uni dagli altri per diversi anni, la macchina da presa si concentra su un madonnaro all’opera nel centro di piazza Caprera, nel quartiere Trieste: senza soluzione di continuità l’immagine diventa a colori, segnando idealmente il passaggio dall’Italia postbellica a quella degli anni Sessanta), Scola passa in rassegna anche il cinema di Michelangelo Antonioni, citato esplicitamente da Elide, sempre più estraniata dalla realtà. Storia e Cinema non sono distinguibili, non vi è una linea di demarcazione possibile per separarli, l’una è il riflesso dell’altra, e viceversa. Una lezione di arte così profonda da colpire direttamente il cuore dello spettatore, già assuefatto da una sceneggiatura quantomai brillante, arricchita da dialoghi e battute destinate a rimanere nell’immaginario collettivo. Fotografato da Claudio Cirillo, montato da Raimondo Crociani e musicato dallo struggente score di Armando Trovajoli, C’eravamo tanto amati pone la pietra tombale su un’intera epoca del nostro cinema, a suo modo identificabile nella morte di Vittorio De Sica (avvenuta un mese prima dell’uscita in sala del film, che è dunque dedicato alla sua memoria): la commedia all’italiana e il romanzo popolare verranno più volte riesumati nel corso degli anni, ma senza la potenza visionaria, la consapevolezza e l’arguzia narrativa del capolavoro di Ettore Scola. Il dramma corale, che tanta parte ha ancora all’interno della produzione italiana, virerà verso le timbriche cupe e spudoratamente retoriche di Stefano Rulli e Sandro Petraglia, decisi a ripercorrere la strada che fu propria di Age e Scarpelli (tra gli altri) ma perennemente vittime dell’errore di utilizzare la Storia come sfondo di cartapesta, che i protagonisti dei loro film possono toccare ma con il quale non riescono mai veramente a interagire. L’esatto opposto di quanto avviene in C’eravamo tanto amati, dove gli avvenimenti storici, quelli culturali e persino i mutamenti della città di Roma agiscono in maniera quasi osmotica, armonica e perfettamente naturale. Opera somma di un regista purtroppo spesso sottovalutato (chi fosse a digiuno dell’arte di Scola provveda a recuperare quantomeno Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?, Dramma della gelosia – Tutti i particolari in cronaca, La più bella serata della mia vita, Trevico-Torino – Viaggio nel Fiatnam, Brutti, sporchi e cattivi, Una giornata particolare e La terrazza), C’eravamo tanto amati è uno dei più mirabili capolavori del cinema italiano, in grado di raccontare sogni, delusioni, vizi e virtù di un popolo, e di farlo per il popolo e con il popolo. In pochi ci sono riusciti.

Info
Il trailer di C’eravamo tanto amati.
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