Intervista a Mauro Bonanni

Intervista a Mauro Bonanni

Tra gli incompiuti di Welles, il Don Chisciotte è il suo progetto più personale e anche quello che, per una serie di questioni irrisolte, rischia seriamente di finire nell’oblio. Ne abbiamo parlato con Mauro Bonanni, che ha lavorato al montaggio del film dall’aprile del 1969 al marzo del ’70. Questa intervista è dedicata a Ciro Giorgini.

Nell’ottobre del 2013, grazie al ritrovamento e alla proiezione del Too Much Johnson, organizzata a Pordenone dalle Giornate del Cinema Muto, si è aperta una nuova fase di interesse nei confronti di Orson Welles, con particolare riferimento al mondo sommerso di tutti i suoi lavori rimasti incompiuti. Ma si è aperto per noi, come Quinlan, anche un percorso che ci ha portato a conoscere Ciro Giorgini, cui si deve l’identificazione proprio del Too Much Johnson e che ha subito condiviso con noi la sua lunghissima esperienza di “setacciatore” del cinema wellesiano, come è riportato nell’intervista che abbiamo pubblicato quasi un anno e mezzo fa. Grazie a Ciro Giorgini ci è stato possibile anche entrare in contatto con Mauro Bonanni, montatore del Don Chisciotte che, tra tutti i film incompiuti di Orson Welles, è senz’altro il più controverso, sia perché Welles lo considerava il suo “own film”, il suo progetto più personale e ambizioso e dunque quello più segreto, sia per colpa della riedizione operata da Jess Franco nel 1992, Don Quijote di Orson Welles, che ha travisato completamente lo spirito dell’opera wellesiana con un rimontaggio arbitrario e involontariamente grottesco.
Abbiamo perciò incontrato Mauro Bonanni per parlare di tutta la lunghissima querelle relativa al Don Chisciotte e per farci raccontare come si lavorava con Welles.
Questa intervista è dedicata a Ciro Giorgini, scomparso lo scorso 6 aprile.

Prima di parlare di Welles, vorrei cominciare dai tuoi esordi, anche perché il Don Chisciotte arriva quasi subito, già nel 1969. E proprio a quell’anno risale il tuo primo film da montatore, Il cavaliere inesistente di Pino Zac. È così?

Mauro Bonanni: Sì, è il mio primo film, ma in realtà è stato fatto nel ’68. Avevo vent’anni all’epoca. Era un film complesso da montare, a tecnica mista, un po’ live action e un po’ cartone animato. Quindi, serviva che fossi presente anche al momento delle riprese. Il film andava rilavorato in moviola, tagliando dei fotogrammi, mettendo tutto quanto in sincrono. E in quel periodo c’era una tecnica che si chiamava front projection, che aveva migliorato la retro-proiezione, perché con questa nuova tecnica non bisognava più proiettare sulle quinte del set, ma direttamente in macchina. Era molto comodo perché non servivano più set enormi. E, insomma, a Praga c’erano i prezzi più bassi per poter usare questo sistema. Lì inoltre avevano anche inventato il modo per fare le panoramiche e gli zoom, sempre con la front projection. Perciò siamo andati a Praga a fare il film e, per dirti quanto quegli studi fossero all’avanguardia, insieme a noi c’erano in quel periodo anche i francesi e gli americani. Loro, gli americani, dovevano fare Il ponte di Remagen, mentre i francesi non ricordo, un film con Jeanne Moreau. Noi avremmo dovuto finire a settembre, gli americani a novembre e i francesi poco prima. Tutt’a un tratto, a metà aprile se ne sono andati gli americani, seguiti poi dai francesi ai primi di agosto. Noi non capivamo il perché. Finché una mattina stavamo per uscire e il portiere ha cominciato a dirci: “No, no, non andate in strada!”. All’improvviso sembrava diventato pazzo, quindi gli abbiamo detto sbrigativamente: “Ma dobbiamo andare a lavorare!” Siamo usciti in strada e davanti a noi c’erano i carrarmati dei Russi! Era la repressione della Primavera di Praga. Quindi è per questo che la lavorazione finì l’anno successivo. Qualche mese dopo siamo tornati e abbiamo trovato che il paese era completamente cambiato. Non c’erano più un sacco di cose, tipo il caffè e la carne, o anche si erano create situazioni assurde come, ad esempio, l’aiuto-regista che era stata mandata a lavorare da un gommista. E poi c’era un clima opprimente: per strada andavano in giro dei vecchi commilitoni in uniforme, che forse avevano fatto la seconda guerra mondiale ed erano filo-russi. Pattugliavano le strade per controllare la popolazione.

E come avevi conosciuto Pino Zac?

Mauro Bonanni: Facevo l’aiuto al montaggio con mia cugina, Marisa Letti. Stavamo lavorando al film a episodi Le streghe (1967) e Pino Zac venne chiamato per fare l’animazione dei titoli di testa. Ne nacque un’amicizia, per cui mi chiamò per fare dei documentari e poi mi propose Il cavaliere inesistente. Va detto pure che all’epoca nessun montatore italiano l’avrebbe fatto: nessuno di loro se ne sarebbe andato a Praga né tantomeno si sarebbe messo a montare un cartone animato che, ai loro occhi, pareva una perdita di tempo. In quegli anni i montatori erano una decina e facevano tutto il cinema italiano. Pensa se potevano stare appresso a un progetto così eccentrico.

E quali sono stati i tuoi primi contatti in assoluto con il mondo del cinema?

Mauro Bonanni: Ah, vuoi sapere proprio come è nata la mia passione per il montaggio? Mia cugina, Marisa Letti, che faceva l’assistente al montaggio, mi aveva tenuto a battesimo. Lei non aveva figli e quindi aveva un particolare affetto per me. Mi ha un po’ cresciuto lei. E io, che da bambino ero molto cagionevole e dovevo passare le giornate all’aria aperta, andavo tutti i giorni al Centro Safa Palatino. La mattina mi accompagnava mia madre e la sera mia cugina mi riportava a casa. Lì c’erano dei giardini pieni di ghiaia e per farmi giocare mi costruivano dei pupazzi con i nuclei con cui in moviola si arrotolava la pellicola. Questi nuclei erano di diverse dimensioni e, per esempio, per fare un cagnolino, mia cugina prendeva quelli verdi, che erano più grandi, e li usava per il corpo del cane, mentre quelli più piccoli, che erano gialli a bordi bianchi, li usava per le zampe e per la testa. Insomma, mi faceva dei pupazzi in questo modo qua. E io correvo per il giardino con questo giocattolo. Perciò in qualche modo, il contatto con il mondo della moviola e del montaggio ce l’ho sempre avuto. E un’estate – era il 1962 – mia cugina doveva andare a Livorno per lavorare a I sequestrati di Altona di Vittorio De Sica. Allora chiese a mia madre se poteva portare anche me. La scusa era che in questo modo potevo andare al mare. In realtà rimasi tutto il tempo in moviola, perché mi piaceva stare lì. La passione è poi proseguita negli anni. Infatti, quando cominciai ad andare alle medie, appena tornato da scuola, mangiavo e poi correvo subito in saletta di montaggio. Lì, facevo prima i compiti, e subito dopo mi mettevo a numerare. Era questa una mansione specifica, quella più meccanica del lavoro del montatore. In pratica, su ogni singolo ciak della colonna video, vale a dire direttamente sulla pellicola, bisognava segnare un numero progressivo ogni sessanta fotogrammi circa, o anche meno se si trattava di un film d’azione, perché i film d’azione avevano un maggior numero di inquadrature. Poi si faceva la stessa cosa con il sonoro. Quindi si sistemava il tutto in una accoppiatrice, il sonoro e l’immagine, e si sincronizzavano. Per fare questo mi davano qualcosa, una specie di paghetta. Poi, con il passare del tempo, i miei incarichi aumentavano, anche se restavo a tutti gli effetti un assistente al montaggio. Perciò, finché non mi arrivò la chiamata di Pino Zac, la mia vita ancora non era stata decisa. Pensa infatti che Zac mi chiamò il giorno prima che andassi a fare l’esame scritto al Magistero per fare l’insegnante. Quella notte l’ho passata a leggere la sceneggiatura invece che a prepararmi per il tema. Era un tema sul Risorgimento e non ho idea di cosa abbia scritto.

E dopo Pino Zac arriva già Orson Welles?

Mauro Bonanni: In realtà avevo fatto anche un film underground, di cui non ricordo il titolo. E a quel punto mi sentivo – fammelo passare, considera che avevo vent’anni – mi sentivo insomma un montatore d’autore, uno predestinato a fare i film d’autore. All’epoca mi offrivano però solamente cose sul genere di Lo chiamavano Tresette…, film di serie B insomma, che mi facevano schifo e rifiutavo, tanto che per più di un anno non ho lavorato. Comunque in quel periodo mi era capitato di organizzare un paio di volte la moviola del montaggio del suono per un mio amico inglese. E avevo anche fatto il montaggio del suono per qualche film di Visconti. Poi un giorno incontro un amico, Walter Diotallevi, che mi dice: “Perché non vieni con me a lavorare su un film? Ci sono gli americani, ci sono i soldi”. Perché era questo che si diceva sempre al tempo, che gli americani erano pieni di soldi. Io però non volevo, perché il tipo di lavoro che mi offriva Diotallevi mi avrebbe fatto tornare indietro, si trattava infatti di fare l’assistente al montaggio. Ma appena Walter mi dice che quell’americano era Orson Welles, allora dico subito di sì. Perciò andai proprio al Centro Safa Palatino, che era uno dei tre quattro grandi studi di montaggio dell’epoca, per lavorare per Welles. Il montatore titolare era un certo Fritz Muller, parente di Renzo Lucidi [montatore che ha lavorato per Welles su Mr. Arkadin / Rapporto confidenziale, n.d.r.], e con lui, come aiuto, c’erano le seguenti persone: Maurizio Gutierrez, lo stesso Walter Diotallevi, Romano Giomini e Nina, che era la sorella di Oja Kodar, l’ultima compagna di Welles. Le prime due settimane lavorai senza Welles, impegnato a fare delle riprese.

Quasi come in uno dei suoi film, dove spesso capita che il suo personaggio compare in scena un po’ dopo, nel momento in cui si è costruita una certa attesa…

Mauro Bonanni: Sì, un po’ così… Quindi, dopo due settimane, Welles torna dalla Germania, dove aveva girato delle scene per uno special a cui stava lavorando, un programma televisivo per la CBS che si chiamava TV Special, con cui intendeva raccontare – in tono più o meno scherzoso – le caratteristiche di vari paesi: Il mercante di Venezia avrebbe dovuto rappresentare l’Italia, Ipanema il Brasile, Old Club l’Inghilterra, poi ce n’era un altro ambientato a Vienna con la Sachertorte e un altro ancora che era intitolato Carnaby Street e che sarebbe rientrato sempre nel discorso sull’Inghilterra. Insomma ne aveva sviluppati già diversi. Il progetto aveva poi preso il nome di Orson’s Bag e non è mai stato completato. Sotto uno scaffale, sempre lì alla Safa Palatino, c’era anche la copia-lavoro di The Deep, su cui in seguito avrei lavorato un po’ anch’io [The Deep era un adattamento dal romanzo Dead Calm di Charles Williams, da cui nel 1989 è stato tratto il film omonimo, in italiano Ore 10: calma piatta, n.d.r.]

Come erano suddivisi i compiti in questa fase?

Mauro Bonanni: Noi tutti preparavamo i giornalieri, mentre Fritz Muller montava insieme a Welles. Lo spazio era diviso in due stanze, in una si preparava il materiale, nell’altra Muller montava con lui. E lì c’erano quattro moviole: tre italiane e una verticale americana.

Qual era la differenza tra la moviola italiana e quella americana?

Mauro Bonanni: Quella americana è piccola, ha un manico per far girare la pellicola e un monitor per vedere l’inquadratura. Quindi se serviva vedere qualcosa in modo veloce, si usava quella americana. Ma in assoluto Welles preferiva la moviola italiana, che permetteva un lavoro nettamente più preciso sui singoli fotogrammi e che poteva manovrare lui. Comunque, ad un certo punto, è successo che hanno mandato via Fritz Muller, non so cosa fosse successo, ho sentito delle urla e l’ho visto andare via. Due giorni dopo è venuta da me Oja Kodar e mi ha detto: da domani ti metti tu al montaggio con Orson Welles. E di fronte alla mia incredulità, mi ha risposto: sì, Orson ha deciso che stai tu con lui. Ero contentissimo ovviamente, ma anche esterrefatto, perché tra tutti ero quello che conosceva meno il materiale.

Perché secondo te ha scelto te?

Mauro Bonanni: Perché ero il più giovane. Lui ha scelto sempre collaboratori giovani, vedi Roberto Perpignani, che è stato chiamato da Welles per fare Il processo. Sul momento comunque non capivo neanche io come mai mi avesse scelto. È una riflessione che ho fatto dopo.

Quindi da quel momento il tuo lavoro è completamente cambiato?

Mauro Bonanni: Sì, Orson ha cominciato a insegnarmi come si lavorava con lui. Faceva dei segni sulla pellicola per gli scarti, mentre le parti che non avevano nessun segno erano buone. Perciò, ad esempio, si prendevano tutti i ciak buoni di un primo piano, tutti i ciak buoni dei controcampi e quelli buoni dei campi larghi. Ognuno di questi raggruppamenti veniva riunito insieme e veniva messo poi ciascuno su una moviola diversa, che potevano a momenti anche essere meno di quattro, dipendeva sempre da quanti soldi c’erano. La moviola italiana, nello specifico, era molto adatta per assemblare queste parti. E poi si lavorava così: quando io mi alzavo da una moviola, mettiamo quella dove c’erano i primi piani, uscivo sul lato destro mentre lui entrava dal lato sinistro e mi mettevo di fianco a lui. Lui segnava qualcos’altro che andava tagliato e io intervenivo. Era tutto molto rigoroso e preciso. Poi lui si metteva al centro della stanza e, con il sigaro in bocca, controllava la situazione da lì. A tratti indicava delle cose da cambiare, da aggiustare, oppure ritornava lui a mettersi in moviola. Era come un valzer, con i suoi tempi, i suoi movimenti precisi e una serie di ritualità.

Era solo lui che lavorava in questo modo?

Mauro Bonanni: Sì, nessuno lavorava così. Ho preso questo vizio di assemblare i ciak di una stessa inquadratura – e lo faccio ancora adesso con il montaggio digitale – quando ad esempio devo montare delle scene d’azione. Oppure, in generale, quando ho da gestire tanto materiale, adotto questo sistema, perché a volte è difficile capire se veramente è tutto buono oppure no. Se attacchi lo stesso tipo d’inquadratura una dopo l’altra, come faceva lui, allora capisci effettivamente quale devi scegliere. Anche Perpignani lavora così, visto che anche lui ha cominciato con Welles.

Perciò la prima cosa che hai montato con Welles è questo special televisivo, Orson’s Bag?

Mauro Bonanni: Sì, ma non è che con lui cominciavi con una cosa e proseguivi con quella. Lui più o meno arrivava alle dieci del mattino e andava via verso le cinque e mezza del pomeriggio. Magari si cominciava con Old Club e poi, nel corso della stessa giornata, si stancava e allora diceva: adesso prendiamo Il mercante di Venezia, oppure Ipanema. Per farti qualche esempio concreto del modo in cui lavorava, mi viene in mente il caso proprio di Old Club, questo episodio ambientato in un club di aristocratici inglesi. Beh, all’inizio c’erano solo due personaggi, due vecchi – tra l’altro interpretati tutti da Welles – che si raccontavano le loro avventure in India. Poi un giorno mi ha fatto mettere una codina, ha inserito il terzo gentleman, poi il quarto – sempre interpretati da lui – quindi ha aggiunto il cameriere e con il montaggio ha fatto in modo tale che sembrava che si trovassero tutti all’interno della stessa stanza e invece erano girati in luoghi diversissimi. Incredibile!

Cosa significa che ti ha fatto mettere una codina?

Mauro Bonanni: Quando si montava con Welles, succedeva così, che lui non era mai soddisfatto, allora mi diceva: metti una coda nera al montato e lì poi si attaccava tutto il materiale che gli veniva in mente di girare. Chiamava Rosalba Tonti, che era l’organizzatrice di produzione, chiamava Giorgio Tonti, che faceva il direttore della fotografia, si truccava in moviola – anche quando ha fatto Shylock per Il mercante di Venezia si truccava lì – quindi andava in teatro di posa e girava. Dopo tre, quattro giorni arrivavano le scene ed erano quelle che andavano aggiunte in corrispondenza delle code nere che mi aveva fatto mettere. E Old Club in questo senso è stato il caso più eclatante, tra tutti è quello il cui materiale si è ingrandito maggiormente. Ma penso anche a quell’altro episodio, Ipanema. Questo frammento era basato su Oja Kodar che passeggiava e tutti si giravano per ammirare la sua bellezza, un materiale che poi in parte è stato riutilizzato per F for Fake. La musica era quella di Garota de Ipanema a cui, trasferita su nastro, cambiavamo la velocità in base alle esigenze delle immagini. E anche questo processo di lavorazione fu sbalorditivo. Il modo in cui riusciva a rimodellare quel che aveva a disposizione era una sorpresa continua, quasi uno shock per le cose che riusciva a inventarsi. A volte penso che dire che fosse un genio era niente, rispetto a quel che posso testimoniare io che l’ho visto lavorare. Con lui vedevi davvero cosa significa essere regista. E viene la rabbia a pensare a tutte le cose che purtroppo non è riuscito a finire. Così, un giorno è venuto al montaggio e ha detto: da oggi lo special è mio. Significa che la CBS aveva deciso purtroppo di non continuare a finanziarlo. E a quel punto hanno cominciato a scarseggiare i soldi. E quello era proprio il periodo in cui avevamo cominciato anche a montare delle parti di The Deep, in cui c’era una coda nera perché bisognava aggiungere la scena dell’esplosione dello yacht. Una sequenza che era ancora da girare e allora, visto che mancavano i soldi, io mi domandavo come avrebbe fatto a farla. Perciò in quei giorni Welles, per potersi permettere di continuare a pagare tutti quanti, ha accettato di andare a fare il narratore per un documentario che girò un tedesco sul Vaticano [Barbed Water di Adrian J. Wensley-Walker, n.d.r.]. Andava in questo modo, che spesso faceva delle piccole partecipazioni in film anche di genere, come per esempio nei western all’italiana, per poter andare avanti con i suoi progetti.

Vedendo la filmografia di Welles, anche solo quella dei film compiuti, è impressionante constatare come – al di là di quel che si è soliti dire – il suo modo di fare cinema si sia molto modificato negli anni. In particolare, si capisce come il montaggio tendesse a diventare un aspetto sempre più importante nella lavorazione dei suoi film. È forse proprio da Othello che il montaggio diventa l’elemento centrale del suo cinema, anche per necessità visto che per portarlo a termine fu costretto a girarlo in quattro anni e in location diversissime.

Mauro Bonanni: Sì, è vero. Anche se non ne abbiamo mai parlato direttamente, me ne potevo rendere conto benissimo. Già nel momento stesso in cui la CBS abbandonò lo special, lui cominciò ad avere un approccio completamente diverso. Nel momento in cui è diventato il produttore di se stesso, il materiale è cresciuto a dismisura, con tutta una serie di inserti, come una pasta che è sempre in lievitazione. Perciò man mano che lui è diventato regista e produttore insieme – cosa che accadde per la prima volta proprio con Othello – si è reso conto di tutto questo, delle mille possibilità di evoluzione della materia. Diceva sempre che nessun fotogramma era da buttare.

E il Don Chisciotte?

Mauro Bonanni: Un giorno mi disse: domani ti presento mio figlio. E tra me e me pensavo: ma io so che Welles c’ha una figlia femmina, mi sa che s’è sbagliato. Bene, hai presente le valigie che avevano gli emigranti quando andavano al Nord? Il giorno dopo Welles venne con due valigie così, mezzo di cartone e mezzo di pelle scadente, tenute chiuse con lo spago. Dentro c’erano tutte le scatolette in cui era contenuto il Don Chisciotte. Così abbiamo cominciato a lavorarci.

Com’era il materiale, in 16mm.?

Mauro Bonanni: Non ricominciamo con questa storia, ché sono già in tanti quelli che hanno insistito a dire che era in 16. No, era tutto in 35mm. Le uniche cose che so che ha girato in 16 erano i test fatti all’inizio, nell’estate del ’55, con Mischa Auer, prima che scegliesse come protagonista Francisco Reiguera. Poi, quando all’inizio degli anni Sessanta ha fatto Nella terra del Don Chisciotte per la RAI, ne ha approfittato per girare anche il suo Don Chisciotte. Ad esempio, c’è una scena di Nella terra… in cui si vede Paola Mori su un calesse, che era la sua terza moglie. Ebbene, noi avevamo quella stessa inquadratura, solo che sul calesse c’era invece proprio Welles, insieme alla ragazzina che interpretava Dulcinea. E poi Welles ha deciso di togliere anche la sua presenza e, in sede di montaggio, alla fine era rimasta solo Dulcinea. Comunque, che tutto questo materiale era in 35 te lo posso dimostrare anche in un altro modo. Oltre al fatto che le moviole erano tutte da 35mm, c’era un metodo di lavoro particolare che lui amava fare: velocizzava delle parti, tagliando qualche fotogramma qua e là e dando un effetto accelerato. E con il 16mm questa cosa non si poteva fare. Perciò, se si era a 24 fotogrammi al secondo, lui li faceva scendere a 12, e i fotogrammi rimasti li attaccavamo con lo scotch. Era, inoltre, anche questo un metodo eccentrico perché di solito per velocizzare si faceva un internegativo dal negativo originale, lo si passava su una macchina truka e poi ti ridavano il negativo velocizzato. Ma era un procedimento costoso, che si faceva tra l’altro su un ciak intero e non solo su una parte, come invece spesso serviva a Welles. Quindi poteva diventare anche una spesa parzialmente inutile. E lui in quel momento non si poteva permettere degli ulteriori investimenti economici, perciò usava questo metodo artigianale di tagliare i fotogrammi da un positivo stampato. E, visto che era un lavoro di estrema precisione, in cui a volte poteva capitare che qualche fotogramma si rompesse, lì in moviola c’erano delle scatole enormi piene di tutti questi fotogrammi tagliati e staccati. Gli scarti insomma, che però lui non buttava mai.

Perché dici che in tanti ti hanno parlato di questa cosa del 16mm e del 35?

Mauro Bonanni: Perché già vent’anni fa ho avuto una grossa discussione intorno a questo tema con la produzione El Silencio, quella di Jess Franco, che ha fatto poi quel terrificante rimontaggio nel ’92 [Don Quijote di Orson Welles, questo il titolo del film rimontato da Jess Franco, uscito in DVD anche in Italia, nd.r.]. Anche loro dicevano che il materiale era in 16. In realtà, il 16mm ce l’hanno loro e non faceva parte del materiale a cui ho lavorato io. E quelle cose in 16mm che avevano, le avevano tra l’altro prese a Suzanne Cloutier, la Desdemona di Othello, che era rimasta per tanti anni in contatto con Welles.

Ma come mai lei aveva questo materiale del Don Chisciotte?

Mauro Bonanni: Lei per telefono mi raccontò che Welles gliel’aveva lasciato come pegno perché le doveva dei soldi. Suzanne non voleva, ma lui aveva insistito.

E questo materiale in 16 lei alla fine l’ha ceduto alla produzione El Silencio?

Mauro Bonanni: Sì, loro l’hanno avuto con l’inganno. Lo so perché mi sentivo con Suzanne. Le avevo sconsigliato da subito di dare quel materiale a Jess Franco, perché nel frattempo con lui avevo già discusso. Suzanne però mi diceva che Oja Kodar le aveva raccontato che Welles nel testamento aveva scritto che bisognava fare così. E alla fine ha ceduto perché loro sono andati da lei dicendo che io stesso avevo consegnato il mio materiale. In quel momento io stavo lavorando fuori dall’Italia e quindi Suzanne non è riuscita a contattarmi. E alla fine si è lasciata convincere da loro. Dopo, quando sono tornato in Italia, ci siamo sentiti per telefono e lei mi ha raccontato tutto, ma purtroppo ormai era troppo tardi. Tra l’altro Suzanne aveva anche il cosiddetto libro nero, vale a dire la sceneggiatura del Don Chisciotte.

Davvero? E lei gli ha dato pure il libro nero, la sceneggiatura?

Mauro Bonanni: No, quello no.

Quindi in teoria ce l’avrebbe ancora lei?

Mauro Bonanni: Eh, ma è morta. Chissà, magari ce l’ha qualche parente.

Ma tu l’hai mai visto questo libro nero?

Mauro Bonanni: No, non l’ho mai visto.

E questo materiale che aveva la Cloutier tu l’avevi mai visto?

Mauro Bonanni: No, nemmeno.

Ma come ti spieghi questo fatto, che ci fosse anche del materiale in 16 del Don Chisciotte?

Mauro Bonanni: Welles aveva una macchina da presa in 16mm di sua proprietà. Forse negli anni avrà girato qualcosa con quella. Ma non so che uso ne volesse fare, perché non aveva senso accorparlo con il 35. All’epoca c’era un procedimento preciso per gonfiare il 16 fino al 35mm, ma poi la differenza si vedeva comunque tantissimo.

Sostanzialmente sul Don Chisciotte tu hai lavorato tra l’aprile del ’69 e il marzo del ’70, giusto?

Mauro Bonanni: Sì, è così.

E in questo periodo su quali parti del Don Chisciotte hai lavorato?

Mauro Bonanni: Su tutto. Quando si lavorava sul Don Chisciotte, c’eravamo solo io e Welles, nessun altro. Non c’erano altre persone. E l’unico che, in quel periodo, è venuto a vedersi delle parti del Don Chisciotte è Peter Bogdanovich.

Era lo stesso periodo in cui stavano lavorando sul libro-intervista?

Mauro Bonanni: Sì, probabilmente.

Però già all’epoca il materiale aveva questo problema, che diverse parti erano senza sonoro, vero?

Mauro Bonanni: Sì, ce n’era poco. Una di queste ad esempio Welles l’aveva chiamata Il dentista [si tratta di una sequenza presente anche nella versione di Jess Franco, n.d.r.] e si vedeva Don Chisciotte che entrava in una specie di roulotte, perché ricordiamoci che il Don Chisciotte di Welles era ambientato nella Spagna contemporanea. Insomma, Don Chisciotte in questa sequenza aveva mal di denti e Sancho gliene toglieva uno. E quella era una sequenza che Welles aveva ridoppiato [e il doppiaggio di Welles, ovviamente, non è presente nella versione di Franco, n.d.r.], facendo le voci di tutti e due, sia di Don Chisciotte che di Sancho Panza. Però – e questo è incredibile – non passava mai la scena in sala di doppiaggio. La guardava in moviola, poi prenotava la saletta, andava e registrava. Non ci crederai, ma novanta volte su cento prendeva perfettamente i tempi di battuta. Attaccavo il sonoro alle immagini e c’erano sempre pochissime correzioni da fare. E, infatti, tra le varie cose che dicevo a quelli di El Silencio – poco prima della rottura con loro – c’era anche questa, che serviva trovare un sordomuto di lingua inglese, capace di leggere i labiali. Ma loro non mi hanno dato retta e hanno fatto un doppiaggio tremendo, reinventandosi completamente i dialoghi.

Ma come mai non c’era più la presa diretta?

Mauro Bonanni: Perché la presa diretta era andata perduta. Le riprese del film, dopo i provini del ’55 con Mischa Auer, erano iniziate nel ’57 e noi ci stavamo lavorando più di dodici anni dopo, tra il ’69 e il ‘70. Considera anche solo questo, che Welles continuava a girare anche in quei giorni, a Roma. Infatti tu potevi trovare non solo dei ciak in inglese, ma anche in italiano, che aveva girato con Giorgio Tonti. Ad esempio, la scena delle pecore l’aveva fatta con lui.

Ma la colonna audio era persa perché si era rovinata o perché se l’era proprio persa?

Mauro Bonanni: No, credo proprio che Welles se la fosse persa. Considera che lui spesso se ne andava all’improvviso dai posti in cui si trovava, perché si ritrovava senza soldi e magari doveva andare da un’altra parte dove veniva pagato per fare qualche lavoro per altri. Quindi si lasciava sempre dietro qualcosa. Pensa per esempio al fatto che era arrivato a lasciare parti del Don Chisciotte alla Cloutier.

E un po’ è andata così anche quando è andato via dall’Italia?

Mauro Bonanni: Sì. Quando nel marzo del ’70 uscì su Oggi la notizia della sua storia con Oja Kodar [vedere in proposito la prima parte dell’intervista a Ciro Giorgini, n.d.r.], lui venne in moviola infuriato e mi disse: “Voi italiani! Voi italiani!” E io non capivo cosa intendesse. Poi mi ha spiegato: in pratica, nell’articolo si diceva che “mentre Paola Mori soffriva, Welles se la spassava all’Hilton con Oja Kodar”. Ma la foto di Welles e della Kodar non era stata fatta all’Hilton come si voleva far credere. Era stata fatta proprio lì dove montavamo. Welles mi indicò i mattoncini che si vedevano sullo sfondo della foto e si capiva benissimo che erano quelli del Safa Palatino. Insomma, la proprietà di questo studio era di Rizzoli, il settimanale pure e quindi eccolo là lo scoop che avevano fatto.

Perciò Welles partì subito?

Mauro Bonanni: Quella mattina che venne da me, verso le 10 e 30, aveva già fatto ripartire sia Oja che Nina. Aveva disdetto la stanza all’Hilton e per tre o quattro giorni ha dormito nel camerino della Safa Palatino. Io la mattina gli portavo il tè e una volta gli ho portato anche i pantaloni ritirati in lavanderia. Facevano impressione: erano giganti! Poi è andato in un appartamento anglo-americano ed è rimasto lì per altri dieci giorni. Quindi se n’è andato.

E non si è portato via niente?

Mauro Bonanni: No, poi la roba gliel’ho portata io a Salisburgo.

C’era anche il Don Chisciotte tra le cose che gli hai portato?

Mauro Bonanni: No, c’erano tutti gli episodi della CBS, compreso Il mercante di Venezia che a quel punto era quasi finito. Era missato e tutto, con anche le musiche di Lavagnino. Pensa che Lavagnino, visto il rapporto stretto di amicizia che aveva con Welles, non aveva voluto essere pagato. E allora Welles gli aveva regalato dei suoi disegni, delle miniature.

Come mai non gli hai portato anche il Don Chisciotte?

Mauro Bonanni: Perché aveva paura del viaggio in treno. Infatti per portare quel materiale della CBS avevo dovuto viaggiare in treno di notte. Era tutto materiale clandestino, visto che non aveva né l’importazione, né l’esportazione temporanea. All’epoca per poter far viaggiare i film era necessario farsi fare dei timbri, per esempio con lo stemma della Repubblica italiana sia all’inizio che alla fine della pellicola.

E quindi la copia-lavoro Don Chisciotte l’hai consegnata, tempo dopo, alla figlia, a Beatrice?

Mauro Bonanni: Sì, ci siamo incontrati a Roma, a Piazza del Popolo e l’ho data a lei. Avevo rimesso tutto quanto dentro alle valigie. Non ricordo però quanto tempo dopo è successo. Considera che era una vita fa.

E invece a Salisburgo com’era andata?

Mauro Bonanni: Welles mi aveva chiamato per dirmi: siamo in una villa e ti procuro pure un cuoco italiano, così possiamo montare in santa pace. Perciò l’avevo raggiunto con tutte le cose della CBS. Ma io, dopo nemmeno una settimana, sono dovuto tornare a Roma perché c’era mio padre che stava morendo.

E in quei pochi giorni ci avete lavorato?

Mauro Bonanni: No, perché avevamo cominciato rimettendo a posto il materiale, che era un casino. Abbiamo tagliato solamente qualcosina di Il mercante di Venezia, perché ci voleva rimettere ancora le mani, anche se per me era finito. Ma le cose con lui non finivano mai. Sai per esempio perché su The Deep non ci abbiamo lavorato più? Perché un giorno a pranzo gli ho detto – eravamo solo io e lui: “Si immagina, Welles, che il giorno in cui uscirà il film, ci saranno poche recensioni e tutti parleranno solo dell’attrice protagonista, di Oja? Silenzio tombale da parte sua… ed è finita che non ci abbiamo più rimesso le mani. C’era rimasto male perché era una cosa che, purtroppo, in quella fase della sua carriera, sarebbe potuta anche succedere. E io, da giovane ingenuo, gli ero andato a dire una cosa del genere. Mannaggia a me.

Ma quella copia-lavoro del Don Chisciotte era quasi definitiva?

Mauro Bonanni: No, oltre al fatto che c’era poco sonoro e che secondo me non l’avrebbe finito mai, quella copia era anche una specie di rebus. Infatti, aveva questa particolarità che, mentre una volta i rulli erano normalmente sui dieci minuti che corrispondevano all’incirca a 270 metri, lui al contrario conservava il Don Chisciotte tenendolo separato in sequenze brevi, che stavano singolarmente dentro a scatolette da 120 metri. Ciascuna di quelle sequenze poi era lunga anche meno di 120 metri. Erano da 40, da 60. E in testa c’era scritto per esempio Sheep, Pamplona. E il giorno in cui andò via dall’Italia facemmo così, che mettemmo in coda, in chiusura di ciascuna di queste sequenze, quello che doveva andare dopo. Per dire, se in testa c’era scritto Dentista e dentro c’era la scena del dente, in coda c’era scritto Sheep e dunque così sapevi cosa si poteva attaccare dopo. E poi magari nella coda di Sheep c’era scritto Pamplona, e così via.

Quindi un minimo si poteva montare?

Mauro Bonanni: No, perché il singolo rullo comunque non era finito. Però, quando sono arrivati questi spagnoli, io gli dissi: è fondamentale recuperare la copia-lavoro, perché lì è indicato almeno l’ordine delle sequenze. In più c’è da dire anche questo, che Orson non usava i ciak. Li dava lui. Per esempio, quando facemmo Tailor – un piccolo sketch in cui lui si provava un vestito dal sarto e lasciava di stucco tutti perché era troppo grasso – lì c’era Tailor uno, Tailor due, poi Muro tre – perché l’attore stava vicino al muro – poi Finestra quattro. E questi per lui erano i ciak.

Ma secondo te lo faceva apposta perché non voleva che poi qualcuno ci rimettesse mano senza la sua approvazione, in ricordo dei film che gli erano stati tagliati e rimontati dai produttori?

Mauro Bonanni: Sì, secondo me, sì.

Perciò, tecnicamente, l’ultima volta che tu hai messo le mani sul Don Chisciotte è stato prima che Welles se ne andasse dall’Italia? E secondo te dopo può essere successo che lui ci abbia lavorato per conto suo? E come sono proseguiti poi i vostri rapporti dopo questa purtroppo breve esperienza di Salisburgo?

Mauro Bonanni: No, non ci siamo visti più e non so quanto possa averci lavorato, ma penso che comunque ci abbia messo ancora un po’ le mani sopra. Dopo, ci siamo sentiti solo per telefono. E, visto che lui non amava parlare alla cornetta, c’era quasi sempre Oja Kodar che faceva da intermediario. Tra l’altro, per un periodo non riuscivo più a trovarlo. E questo è successo quando lo cercavo per dirgli che volevano mandare al macero i negativi del Don Chisciotte. Sapevo che era a Parigi, ma non riuscivo a trovarlo. Allora non c’era mica il telefonino… Finché un giorno mi telefonò da Los Angeles e gli potei dire: guarda che ho preso il negativo del Don Chisciotte.

E quando gli hai detto questa cosa del Don Chisciotte, lui che ti ha detto?

Mauro Bonanni: Mi ha ringraziato ovviamente e mi ha detto che sarebbe venuto il principe Alessandro Tasca – che era il suo miglior amico – a prenderlo. Ma venne solo anni dopo e non ci fu comunque modo di dargli il materiale.

E quant’era la presenza di Welles in scena come narratore?

Mauro Bonanni: In scena nel Don Chisciotte? Lui non c’era. C’era solo quell’apparizione in carrozza, poi tolta. Parlo naturalmente solo di quello che ho visto io.

Quindi, comunque, c’era ancora un lavoro di anni da fare?

Mauro Bonanni: No, credo proprio che non l’avrebbe mai finito. Ti faccio un altro esempio: in Il Mercante di Venezia c’era Shylock che andava in giro alla ricerca del personaggio di Jessica. Una scena normale: lui guarda la lettera che lei gli ha scritto, esce, quattro passaggi e arriva. Poi però Welles ha girato al Centro Palatino una scena con delle persone mascherate e le ha aggiunte nel mezzo di questa breve sequenza di passaggio. Quindi ha aggiunto una scena in cui ho fatto anch’io l’attore, faccio il saltimbanco…

Ah sì, adesso che me lo dici, ricordo di aver visto la tua apparizione da qualche parte.

Mauro Bonanni: Già, fu un momento molto divertente, anche perché era la prima volta che vedevo Welles su un set. Comunque, Shylock si ritrovava ad incontrare anche i saltimbanchi. Poi ha aggiunto, come intermezzo, anche la scena con la regata di Venezia. Solo che quelle erano riprese che erano state fatte di giorno, quindi fece un effetto notte, poi recuperò dei girati di fuochi d’artificio, quindi andai insieme a lui in un laboratorio che si chiamava VideoGamma perché servivano degli effetti truka per inserire i fuochi d’artificio nelle riprese della regata. Per fare questi effetti bisognava passare dal negativo all’internegativo, quindi si faceva l’interpositivo e si ritornava al negativo. L’interpositivo altro non era che un positivo a grana fine, morbido, dal colore tenue, più malleabile quindi. Si passava il materiale su questa macchina truka e ci si mise lui stesso. E i colori dei vari fuochi li riuscì a ricostruire direttamente lui.

E come faceva?

Mauro Bonanni: Te l’ho detto che era un genio! Sapeva fare tutto. E c’era uno che era presente, uno del laboratorio, che si chiamava Giulio Cecchini e da quel giorno in poi non ha parlato altro che di questo e diceva a tutti: ma lo sapete che Orson Welles ha fatto da solo gli effetti ottici? Ogni volta ricordava questa cosa che, solo vedendo Welles al lavoro, aveva davvero capito come si facevano gli effetti speciali e lo diceva con orgoglio. Questo perché Welles aveva una conoscenza totale di ogni aspetto della lavorazione.

Ma con lui ci parlavi spesso? Di come pensava di finire il Don Chisciotte per esempio, o di altre cose.

Mauro Bonanni: Parlava poco, a lavoro difficilmente. Se si parlava, era quelle volte che si andava a pranzo. In quelle occasioni si parlava di tutto, che lui non dormiva per esempio, che la notte leggeva e scriveva, che odiava gli americani, perché diceva che erano dei bambini. Si parlava di cinema. L’unica cosa che andammo a vedere per quattro sere consecutive era De Filippo, che adorava come attore. Una sera invece siamo andati a sentire Amalia Rodrigues, la cantante portoghese. Poi, a tavola, alle volte faceva dei giochi di prestigio.

E parlava sempre in italiano?

Mauro Bonanni: Sì, a parte quando si incazzava, allora parlava in inglese. Spesso rimproverava Oja perché lei parlava in inglese. Lui diceva: sto in Italia, si parla italiano. Qualche volta succedeva però che la mattina arrivava e parlava inglese e allora diceva: scusa Mauro, oggi ho dimenticato l’italiano sotto le lenzuola. E dopo un po’ ricominciava a parlare in italiano. Poi ad esempio aveva il terrore del raffreddore e mandava subito qualcuno a casa se vedeva che faceva uno starnuto o un colpo di tosse.

Ma in quel periodo aveva già cominciato a lavorare su The Other Side of the Wind?

Mauro Bonanni: No, ha cominciato dopo. Poi, molto tardi, poco tempo prima che morisse, mi chiamò ancora, perché voleva girare un film in Italia, The Cradle Will Rock, che alla fine non si è fatto. Mi chiamò per farsi fare un preventivo, era contento perché in Italia costava tutto di meno. E in quell’occasione, poco tempo dopo, mi incontrai anche con il principe Tasca, proprio per parlare di questo nuovo film che Welles voleva fare.

È molto interessante che ci sia – visivamente, stilisticamente e tematicamente – una distanza quasi abissale tra The Other Side of the Wind e il Don Chisciotte. Il primo – per quel che abbiamo potuto vedere – sembra un film quasi sperimentale, in pieno spirito New Hollywood, il secondo invece dà l’impressione di essere una operazione di riappropriazione di un cinema originario, primitivo, essenziale…

Mauro Bonanni: Sì, pensa che a proposito della semplicità mi disse che la scenografia del Don Chisciotte erano le nuvole. E comunque la stessa cosa che stai dicendo la vedevo scorrere davanti ai miei occhi nei mesi in cui – al di là del Don Chisciotte – ho montato insieme a lui. Infatti, per esempio, lavorava contemporaneamente su Carnaby Street, che era un breve raccontino sulla Swinging London e aveva un montaggio modernissimo e molto rapido, e sul Mercante di Venezia che era molto più ieratico. Lui in questo era sempre come un ragazzo, sempre alla continua ricerca di nuove cose. È uno che all’epoca avrebbe potuto tirare fuori dal cappello un film come Easy Rider.

Veniamo alla vicenda del negativo del Don Chisciotte che hai custodito tu per anni. Era in un deposito?

Mauro Bonanni: No, stava prima all’Istituto Luce e poi arrivò in moviola. Erano cinque bidoni – all’epoca si chiamavano così – e lì c’erano tutti i negativi. Furono presi e portati da Vittori, che era un laboratorio di sviluppo e stampa, dove avevamo anche il negativo dello special della CBS. Quindi il negativo del Don Chisciotte fu portato da Vittori. Poi, quando Welles è partito, c’era da pagare il deposito. Era stato tagliato un negativo del Don Chisciotte, una sola sequenza. E allora c’era questa legge non scritta e rispettata da tutti, secondo la quale se un film, tre mesi dopo il deposito, aveva il negativo tagliato, allora o la produzione pagava il magazzinaggio o veniva mandato tutto al macero e restava solo il negativo montato. Era la regola, perché il taglio del negativo veniva considerato scarto. Tanto è vero che di tutti gli ultimi film che sono stati fatti in pellicola, abbiamo solo le copie-lavoro. Questo a meno che le produzioni non decidevano di tenerselo. Perché tu immagina tenersi un film di un’ora e quaranta, vale a dire di 2600 metri, è un conto; ma tenersene 60000 di metri, capisci quante scatole in più sono? Per questa clausola, quindi, Vittori voleva mandare tutto al macero e tenere solo quella sequenza. Voleva fare così anche perché stavano cambiando sede e quindi avevano bisogno di liberarsi di un po’ di cose. L’hanno tenuto un po’ di anni e poi erano davvero intenzionati a buttare tutto. Tieni presente anche questo, che parliamo di cose pagate in nero. Io ero pagato in nero, Vittori pure. Per dire, una volta andai con Oja a pagare Vittori – questo prima che Welles se ne andasse, anzi esattamente quando il TV Special passò dalla CBS a Welles stesso – e non ricordo quanto si dovesse pagare, però c’era questa scrivania enorme, dove Oja sparse non so quanti pezzi da diecimila lire.

Cosa significa esattamente taglio del negativo?

Mauro Bonanni: Il negativo veniva ritagliato allo stesso modo del positivo e quindi si pensava che, nel momento in cui fosse stato fatto il taglio del negativo, il film fosse finito e che tutto il resto dovesse essere buttato. E questo succedeva anche se tu avevi tagliato una sequenza sola dal negativo. Il resto per loro era scarto. E, nel caso del Don Chisciotte, noi avevamo tagliato solo una scena di cinque minuti perché facemmo fare delle velocizzazioni, che andavano bene in positivo e quindi le tagliammo anche sul negativo. Perciò Vittori scrisse che il proprietario del materiale era irreperibile e che era inadempiente al pagamento. L’unico contatto ero io, che provavo a chiamare Welles, ma non riuscivo a trovarlo. Alla fine perciò diedi ottocento mila lire a Vittori per farli stare buoni. Ho preso quel negativo e l’ho portato in un magazzino. E lì ho pagato anche il magazzinaggio. Più o meno era metà degli anni Settanta quando è successa questa cosa.

E adesso dov’è questo materiale?

Mauro Bonanni: Adesso è a Cinecittà, nel laboratorio degli studi di Cinecittà, auto-sequestrato. Ma che succede adesso? Che io, ogni anno, facevo questa cosa, che in gergo si dice: portare a spasso il negativo. Vale a dire che lo si tira fuori dalle scatole, lo si riavvolge in moviola e poi lo si rimette dentro, in modo che prenda aria per proteggerlo dall’usura e, soprattutto, dalla possibilità che la pellicola si attacchi.

E questa cosa la puoi fare ancora?

Mauro Bonanni: No, non me la fanno fare più perché c’è la causa in corso con Oja Kodar. Io ho anche fatto avvisare il tribunale tramite il mio legale, dicendo: guardate che io sono disposto a farlo ancora questo lavoro di conservazione sul materiale. Beh, non mi hanno mai risposto.

Che intendi auto-sequestrato?

Mauro Bonanni: Che ho deciso di metterlo sotto sequestro spontaneamente, perché ho pensato: se mi succede qualcosa e poi nessuno sa dove sta questo materiale del Don Chisciotte? Quindi così lo sanno, solo che l’hanno abbandonato al suo destino.

Ma è sotto sequestro da quando è cominciata la causa con Oja Kodar?

Mauro Bonanni: Diciamo che tutto il caso è cominciato quando è venuto da me uno della produzione di El Silencio all’inizio degli anni Novanta dicendo che voleva questo negativo. La prima risposta che diedi fu: non vi do il negativo a scatola chiusa, soprattutto se non mi pagate tutto quello che c’è da pagare. E allora questo tizio se ne uscì con la storia del 16mm, che voleva il materiale in 16. E io gli risposi che avevo solo 35mm. Non mi volevano credere e quindi a quel punto mi sono rivolto subito a un avvocato. Ci siamo incontrati con i rispettivi legali e io ho portato un pezzetto di pellicola in negativo 35mm. L’inviato della produzione El Silencio è rimasto allibito, dicendo che loro avevano solo materiale in 16. Allora mi chiese come volevo portare avanti la questione. E io gli risposi che, sentendomi un erede morale del Don Chisciotte, volevo partecipare al montaggio. Mi si disse però che il lavoro l’avrebbe fatto tutto Jess Franco. A quel punto io ho concluso: va bene, faccio l’assistente di Franco. Questo di El Silencio non era convinto anche perché mi disse che Oja aveva firmato un contratto in cui si stabiliva che lei avrebbe visto solo la copia stampata. Io rimasi di stucco: com’è possibile che Oja, che ha vissuto per anni con Welles e che sapeva quanto lui tenesse al Don Chisciotte, abbia firmato una cosa in cui delegava completamente il lavoro? Evidentemente le avevano offerto tanti soldi. Allora lui mi chiese di cosa c’era bisogno e io gli dissi che, prima di tutto, era necessario che il negativo fosse rimesso a bagno nel liquido dello sviluppo in maniera che potesse recuperare la perforazione giusta. Vale a dire che andava fatto un lavoro di rivitalizzazione del materiale e a questo proposito aggiunsi che, a quel che sapevo, c’era un laboratorio in Germania che era specializzato in operazioni di questo tipo ed erano dunque i migliori. Per il discorso relativo al suono invece gli consigliai di andare in un laboratorio in Francia. Questa persona sembrò accogliere tutte le mie proposte. Quindi andai a Siviglia per incontrare Jess Franco, a proposito del quale avevo letto da qualche parte che era stato definito uno dei dieci peggiori registi al mondo, però non pensavo che fosse la stessa persona. Pensavo fosse un omonimo. Quando andai lì, lui mi presenta il curriculum delle cose che aveva fatto e io resto allibito: era molto peggio dei polizieschi che mi ero ritrovato a fare io. Perché, infatti, dopo Orson Welles, avevo rinunciato – per così dire – alle mie ambizioni “autoriali” e mi ero ritrovato ad accettare quel tipo di lavori che invece, all’inizio della mia carriera, tendevo a rifiutare. E il film con cui ripresi davvero a lavorare era proprio un poliziottesco che si intitolava Squadra volante [film del 1974 di Stelvio Massi con protagonista Tomas Milian, n.d.r.]. Insomma, vedendo che Jess Franco faceva delle cose molto peggiori di quelle che facevo io, mi preoccupai. Comunque, gli feci notare subito alcune cose: primo, che c’era bisogno della copia-lavoro, secondo, che c’era bisogno del libro nero, la sceneggiatura. Lui mi rispose che quelle cose non c’erano. E io gli dissi che non era possibile, perché la copia-lavoro era passata al Festival di Cannes nel 1986 e una delle critiche che erano state fatte all’epoca era che la copia era piena di code.

E come mai?

Mauro Bonanni: Perché, visto anche che il montaggio del Don Chisciotte era stato molto lungo e travagliato, poteva capitare – e capitava – che si rompessero dei fotogrammi. A quel punto quando era possibile li riattaccavi con lo scotch, oppure se non si poteva fare più niente mettevi una coda di un numero di fotogrammi equivalente a quelli che si erano rotti; dopodiché, in un secondo momento, si sarebbe dovuto andare a recuperare il negativo per ristampare quei fotogrammi e incollarceli. Quindi il negativo che avevo io era indispensabile – e lo è ancora – per porre riparo a queste mancanze della copia-lavoro.

E cosa ti disse Jess Franco a proposito di questo?

Mauro Bonanni: Mi disse che non serviva, che l’unica cosa di cui c’era bisogno era il romanzo di Cervantes. Ma era una sciocchezza, perché Welles non avrebbe lavorato vent’anni al Don Chisciotte se avesse voluto fare solo un semplice adattamento del romanzo. Comunque, tornai a Roma tutt’altro che convinto. Avevamo trovato questo accordo, che lui mi dava un po’ di soldi e che io avrei avuto i diritti per il mercato italiano. E, dal punto di vista economico, mi andava bene. Era tutto il resto che non mi convinceva. Allora gli faccio, ok, io ti mando il positivo rigato e lo montiamo.

In che senso il positivo rigato?

Mauro Bonanni: Nel senso che, proprio perché non mi fidavo, in questo modo non poteva appropriarsi del materiale. Era la stessa cosa che si fa oggi quando si mandano dei dvd con delle scritte sopra per evitare che quelle copie vengano commercializzate illegalmente. Perciò gli dissi: montiamo il materiale tuo e il mio, poi si taglia in Italia il negativo mio e tu in Spagna tagli il negativo tuo, quindi si fa a cambio. E in questo modo si sarebbe composta la copia. E per i viaggi, dissi, si fa così: io porto il negativo, ma si fa anche un internegativo di copertura, perché metti che cade un aereo, almeno uno dei due si salva. Alla fine di tutto questo discorso Jess Franco se ne esce dicendo: tu non ti fidi di me? E io gli rispondo: poco. E aggiungo: se tu mi fai causa, me la fai in Spagna e io la causa la voglio fare in Italia. Perché tu mi tieni una settimana, due, poi mi cacci via, e io non posso fare più niente. E infatti più o meno è successo questo. Perciò, dopo, feci una proiezione pubblica al Palazzo delle Esposizioni a Roma, una proiezione organizzata tramite Ciro Giorgini. E chi ha assistito a quella proiezione è rimasto allibito per la qualità e la potenza del materiale. A quel punto quelli di El Silencio mi offrirono 800 milioni perché io gli dessi tutto. Ho detto di no e allora mi hanno fatto causa.

Ah, e quindi erano cause diverse?

Mauro Bonanni: No, era ed è una causa unica, perché Oja aveva ceduto i diritti alla produzione El Silencio. Adesso bisogna fare il terzo appello che perderò, perché già ne ho persi due.

Perché sei sicuro che perderai?

Mauro Bonanni: Perché il giudice non capisce. Non capisce quale è stato il mio apporto

All’epoca in cui ci fu questa proiezione pubblica, organizzata tramite Ciro Giorgini nel 1992, tu dicesti: mi auguro che ci sia una convergenza d’intenti per salvare il Don Chisciotte. Da allora sono passati più di vent’anni e non è cambiato nulla, anzi…

Mauro Bonanni: Eh già. Infatti, era quello che dicevo allora: per lavorare al Don Chisciotte non serviva Jess Franco, serviva una copertura culturale. Sarebbe servito l’intervento di tutti gli studiosi internazionali del cinema di Welles, da Jonathan Rosenbaum, che tra gli americani è stato l’unico che ha scritto bene di me, ai francesi, a Costa-Gavras, che ha supervisionato l’edizione del Don Chisciotte presentata al Festival di Cannes nel 1986 e con cui avevo parlato all’epoca, agli italiani come Ciro Giorgini ed Enrico Ghezzi. Quello che dicevo: è concordiamo con loro il lavoro, facciamoglielo vedere, ragioniamo insieme a loro, ascoltiamo i loro consigli. Come se ci fosse un regista, invece ci sono quattro-cinque studiosi riconosciuti che supervisionano il tutto. E non l’hanno voluto fare.

E dopo questa tua richiesta pubblica?

Mauro Bonanni: Non è successo niente. Escluso Ciro Giorgini, non mi ha seguito nessuno. Una volta, a uno di questi incontri, in cui c’erano anche Rosenbaum e Bertolucci, intervenni dicendo: è inutile che facciamo tavole rotonde, quadrate, ecc., che ci parliamo addosso su Welles, mentre io sono l’unico che è in causa con loro. Dicevo: facciamo qualcosa di concreto, facciamo un documento comune per salvaguardare il Don Chisciotte, salviamo questo materiale, mettiamo da parte tutti gli odi, chiudiamo con Mauro Bonanni e restauriamo il film cercando di arrivare il più vicino possibile alle intenzioni di Welles. Come lo voleva lui sarà impossibile, però cerchiamo di salvaguardarne la memoria cercando di avvicinarci alle sue volontà. Niente, nessuno ha mai fatto niente. Questo documento non è mai stato fatto.

Perché nemmeno Rosenbaum, che pure avrebbe il potere e il peso specifico per farlo anche ora, ha fatto niente?

Mauro Bonanni: Perché? Non lo so. Forse, è così, che a tutti piace parlare, ma nessuno poi si mette concretamente a fare le cose. Prima di El Silencio, tra l’altro, c’erano state altre occasioni per poter provare a salvare il materiale. Una fu da parte di chi aveva restaurato il Napoléon di Abel Gance, ma non riuscirono a mettersi d’accordo con Oja Kodar. Dopo questa cosa, pensa che altro successe: stavo facendo un lavoro con Mario Cecchi Gori. Beh, mi ritrovai a cena con lui, con Pasquale Squitieri, visto che stavo montando un film per la regia sua, e con qualcun altro. Squitieri ad un certo punto disse a Cecchi Gori: ma sai che Mauro ha lavorato con Orson Welles? E Cecchi Gori si gasò, perché disse che Welles era il suo regista preferito. Allora Squitieri mi chiese di raccontare tutta la storia del Don Chisciotte. E lui si mostrò interessato e disse: organizziamo qualcosa, io ci partecipo! Ma anche quella volta non riuscirono a mettersi d’accordo con Oja.

Che succederà quindi alla fine secondo te?

Mauro Bonanni: Niente, perderò la causa, si prenderanno il negativo e tutta questa storia sarà finita. E non so chi si prenderà questo negativo, perché c’è un problema ulteriore, vale a dire che gli spagnoli di El Silencio dicono che il materiale è il loro perché pare che Oja abbia ceduto i diritti in perpetuo, mentre lei dice che non è vero. Non so proprio come andrà a finire…

E la copia che sta alla Cinémathèque e che verrà proiettata il prossimo 29 giugno, in occasione del centenario della nascita di Welles?

Mauro Bonanni: Ecco, già se si riesce a recuperare quella copia si è a buon punto. Quello è l’ultimo montato su cui ha lavorato Welles. Io ripeto, rinuncio a tutto, ma lasciatemi stare lì nel momento in cui si lavora al montaggio. Fatemi stare lì davanti, che almeno può darsi che sul momento mi ricordo qualcosa. Ma, niente, questa cosa non si è riuscita a risolvere… [Bonanni mi guarda, poi prosegue] ma come mai quando venite da me per parlare del Don Chisciotte fate tutti questa faccia triste e poi comunque non si fa niente? Pensate a come posso stare io. Lascia perdere tutti i danni fisici ed economici, ma il modo in cui sono stato trattato in tutti questi anni, il legame con Welles che ho cercato di tenere vivo. Sapessi quante volte ho pensato: Mauro, ma perché non ti sei fatto i cazzi tuoi e non hai lasciato andare tutto al macero? Questa è una cosa che alla fine resta solo a me, in memoria, in ricordo di Welles e di quello che ho passato per questo film. Non resta a nessun’altro, anche perché non è che c’è scritto da qualche parte che io ho montato il Don Chisciotte di Welles, non me ne frega niente di questo. Perché in realtà nessuno montava i film di Orson Welles, li montava lui i suoi film. Da Lucidi a Perpignani, tutti facevano esattamente quello che diceva lui.

Per concludere sul Don Chisciotte ti chiederei un ricordo di Ciro Giorgini, anche perché ora che lui non c’è più, diminuiscono ulteriormente le residue speranze che si riesca a risolvere questa situazione.

Mauro Bonanni: Ora che lui non c’è più, su Orson Welles è come se mi mancasse una gamba. Da adesso in poi dovrò camminare su una stampella. Su Welles posso dire che era un disco solido che non si rompe mai. E ti dirò questo che, io ero affascinato enormemente da Welles, ma è solo conoscendo Ciro che ho imparato ad amarlo. Delle volte passavamo giornate intere a parlare di lui. E Ciro mi illuminava su un sacco di cose, tanto che alle volte ne sapeva più di me, mi faceva scoprire sempre degli aspetti nuovi di Welles, come se il mio racconto fosse a volte superficiale, come se non l’avessi capito e Ciro me lo faceva capire, perché lui scavava sempre più a fondo. Aveva poi un incredibile occhio da montatore, quasi più veloce del mio nell’immagazzinare le immagini. Come vedeva una cosa, l’aveva subito memorizzata. E quello su cui insisteva era sapere tutto del lato umano di Welles, del modo in cui lavorava. Perché aveva questo dramma, di non essere riuscito a conoscerlo, di non averlo potuto toccare. E chi ha lavorato con Welles è rimasto marchiato. Prendi il direttore della fotografia di Othello, Oberdan Trojani che, dopo Welles, praticamente non ha voluto più lavorare. Questo perché ti restava così forte il ricordo di lui, di tutte le cose che era stato in grado di insegnarti. E io stesso per un anno e mezzo non ho più più fatto niente, poi ho dovuto ricominciare perché sennò non mangiavo più. Ma quante volte, mentre mi trovavo con i registi con cui ho lavorato dopo, ho pensato: ma come si fa a dire che questo qui fa lo stesso mestiere di Welles? Avresti dovuto smettere perché lui era troppo. E io del fatto che avevo lavorato con Welles non l’avevo detto a nessuno finché non ho incontrato Ciro. Non me ne fregava niente dirlo, pensavo che fosse una cosa mia che doveva restare con me. E Ciro invece mi diceva, raccontami tutto, non ti scordare niente. Questa sua passione sconfinata mi ha convinto che fosse necessario parlarne. Poi alle volte mi rimproverava bonariamente perché mi diceva: ma com’è che ogni volta ti ricordi un fatto diverso? Com’è che ogni volta ti ricordi una cosa in più?

Quando hai incontrato Ciro per la prima volta?

Mario Bonanni: Stavo lavorando a una serie tv dedicata alle grandi coppie del cinema, Stelle in fiamme. Una serie strana, che aveva una prima e una terza parte con materiale di repertorio, mentre la parte centrale aveva delle ricostruzioni di fiction. Insomma, bisognava fare la puntata su Orson Welles e Rita Hayworth – credo che si fosse all’inizio degli anni Novanta – e tra i ricercatori del programma, ce n’era una che era amica di Ciro. Ci servivano delle foto di Welles e allora chiamarono lui. Perciò il giorno in cui viene, mi chiama il produttore e mi metto a vedere le foto che aveva portato Ciro. Ce n’era una in particolare, la presi e dissi: questa non è del periodo che ci serve, è precedente. Ciro resta un momento in silenzio, guarda la foto, poi guarda me e mi fa: “E tu come lo sai?” E allora gli dissi che avevo lavorato con Welles. Lui allora mi fece: “Quando ti posso disturbare?” Quando ti pare, gli risposi io. E da lì è nata la nostra amicizia. Il giorno dopo ci siamo visti, abbiamo pranzato e abbiamo finito di parlare alle sette di sera. E poi lui mi ha seguito passo passo per la storia degli spagnoli, ha organizzato l’incontro al Palazzo delle Esposizioni… Per me il materiale del Don Chisciotte non era mio, era mio e suo. Con Ciro ero ubbidiente come un cane. L’ultima volta che ci siamo visti è stato per caso. Lui era in vespa, e siamo rimasti a parlare per delle ore. Quanto l’ho amato? No, io lo amo ancora. Per me non è finito, so quanto ha sofferto. Tutte le parole che puoi mettere insieme non fanno Ciro. Ciro era tutto. La sua vita l’ha dedicata interamente a quello. Pure io faccio il montatore, ma è un lavoro e lo faccio in forma se vuoi superficiale. Lui invece è andato a scavare nella terra, non si è mai fermato davanti a niente. Tutti quanti viviamo da una parte e poi il lavoro ci serve per tirare avanti e prendere i soldi. Lui invece no. Lui campava con quello, quella era la sua linfa, le sue proteine. M’ha spronato sempre. Tutti i passi che ho fatto li ho fatti insieme a lui. Allora che ti dico? Che mi manca il confronto, mi manca l’altra gamba.

Vai allo Speciale Orson Welles.

Info
La foto di Mauro Bonanni è tratta da Rosabella – La storia italiana di Orson Welles di Ciro Giorgini e Gianfranco Giagni.
Il programma completo della retrospettiva su Orson Welles sul sito della Cinémathèque.

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