Chevalier

Nuovo lavoro di Athina Rachel Tsangari in concorso a Locarno, Chevalier è una flebile metafora della situazione ellenica che segue la rotta del pulpito e del giudizio, tentando di legittimare e anzi esaltando tutti i limiti etici di una cinematografia troppo spesso ammiccante, spocchiosa e sterile.

Finché la barca va, tu non remare

“Gli occhi…
Sembrerebbe, insomma, che all’origine dell’occhio ci sia una lacrima”
Alberto Grifi (1938-2007)
Nel mezzo del mar Egeo, sei uomini impegnati in una spedizione di pesca su uno yacht di lusso decidono di intraprendere un gioco. Iniziano a giudicarsi, in una gara di paragoni che arriverà anche a smembrare canzoni o analizzare il sangue. Da amici diventeranno rivali, poi rivali agguerriti. Ma alla fine del viaggio, quando il gioco sarà finito, il vincitore sarà il migliore. E porterà al mignolo l’anello della vittoria: lo Chevalier. [sinossi]

Qual è la funzione del Cinema? Quale il ruolo del regista? Si tratta forse di issarsi su un palchetto, a guisa di novello Ponzio Pilato privo di macchia, per distribuire giudizi e morale? O sarebbe forse il caso di essere sincero e umile, rimboccarsi le maniche e guardare finalmente con affetto ai propri personaggi tentando di restituirne, oltre alle ipocrisie e ai piccoli sotterfugi, anche le vive emozioni e l’umanità? Ci si chiede spesso, durante la proiezione di Chevalier, nuovo lavoro di Athina Rachel Tsangari in concorso a Locarno 2015, dove stia il confine etico fra il rispettabile e metaforico cinismo sardonico e l’agghiacciante spersonalizzazione di un voyeurismo malato e freddo, che tende più alla spettacolarizzazione del male che al reale tentativo di trovarvi una soluzione. La regista greca, a cinque anni dalla passerella veneziana di Attenberg, torna dietro alla macchina da presa propugnando non la necessità di essere migliori in senso assoluto, ma semplicemente di superare gli altri componenti di una cerchia ristretta, giudicarli, irriderli ed umiliarli, il tutto per per puro gioco. Orpello di trama che suona tanto come intento programmatico per molti versi respingente di un cinema, la new wave greca, troppo spesso vuoto e di una crudeltà forzata, asettico nella sua freddezza tendente all’ammiccamento.

Non può che venire in mente, in tal senso, l’offensivo incipit di Miss Violence di Alexandros Avranas, in concorso alla Mostra di Venezia 2013. Lo stesso inaccettabile ammiccare della bambina che nel film di Avranas sorrideva guardando in macchina prima di lanciarsi dal balcone e trovare la morte, si ritrova in Chevalier nella soddisfazione misantropica di chi scopre un difetto altrui, ora fisico ora comportamentale, ma anche e soprattutto nella continua ricerca di una risata forzata e telefonata, che va dai reiterati commenti sulla fattura delle mutande all’immancabile derisione per la dimensione del pene. Lo Chevalier è un gioco senza particolari regole, il cui scopo è semplicemente decidere quale dei giocatori sia il migliore, perché possa alfine indossare l’anello della vittoria. I sei protagonisti, pescatori croceristi bloccati sulla barca da un guasto meccanico, vengono travolti dalla febbre della competizione, per la quale più ancora della necessità di emergere pare contare la sistematica distruzione fisica e psicologica del proprio vicino. I sei diventano al contempo giudici e imputati, prigionieri e carcerieri, moralizzatori amorali pronti a spiarsi vicendevolmente nel sonno, nelle abitudini, nella parlata, nell’abbigliamento, nel portamento, nei valori sballati delle analisi del sangue, nei rutti a tavola, nel vigore dell’erezione mattutina (o notturna, come ci ricorda una delle sequenze più smaccatamente irrispettose e disoneste dell’intero film).

Si riflette su come la convivenza forzata in mezzo al mare possa essere letta come un’allegoria dell’instabile situazione sociale, politica ed economica di una Grecia schiacciata da una parte dalle affamanti politiche di austerità europee, dall’altra da una forte presenza reazionaria e destrorsa sul territorio, ma il film preferisce lasciare progressivamente cadere tutti gli appigli con il reale (e anzi l’unica voce esterna è quella di un comandante invisibile, disumanizzata dal gracchiare di un altoparlante), limitandosi a una traviante concezione ludica del mezzo Cinema come semplice inganno e provocazione. I protagonisti, nella serie di prove da superare, vengono dipinti come stupidi, litigiosi, profondamente egoisti anche nelle alleanze, mentre il cameriere ed il cuoco, come del resto il film, parlano e sparlano alle loro spalle, prendendosi vicendevolmente per il naso. In una profusione di corpi, sangue, muscoli, ricette e isterie, Chevalier mette a nudo i sei uomini, senza tuttavia interessarsi minimamente alla loro sfera sentimentale. Quello che interessa ad Athina Rachel Tsangari è piuttosto la distruzione del machismo, apice di una lotta intestina filmata con un distacco glaciale e atroce, a metà strada fra il cinismo altezzoso di Ulrich Seidl, del quale manca però il talento visivo, e la vuota superbia di Yorgos Lanthimos, di cui la Tsangari è storica produttrice. Chevalier è un film piatto e di una crudeltà precotta, che manca totalmente di coraggio, di velleità umane, di qualsivoglia intento eversivo. Mentre i protagonisti costantemente si giudicano con tanto di blocco degli appunti, l’unica idea che riesce a emergere è quella di un cinema insincero che, con la spocchia di chi si sente senza peccato, pontifica opinabili verità dal proprio palco sopraelevato. Una distanza quasi fisica, dalla quale osservare la marcescenza degli uomini senza rischiare che una sola goccia del loro sangue osi sporcare la macchina da presa, né chi la muove. Una concezione profondamente reazionaria del mezzo che, per noi cresciuti con la simpatetica, onesta e straziante umanità di Alberto Grifi, risulta semplicemente insopportabile e oltraggiosa. Perché all’origine dell’occhio sta sempre una lacrima, ma lo sguardo di Athina Rachel Tsangari si rivela glaciale, alieno, arido. Disonesto, e per questo da rifiutare.

Info
La scheda di Chevalier sul sito del Festival di Locarno.

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