Junun

Un’esplorazione giocosa e discreta per un documentario etnomusicologico insolito e immersivo. Con Junun Paul Thomas Anderson ci trascina al seguito del suo compositore Jonny Greenwood nel cuore del Rajastan e delle sue sonorità. Al Festival di Roma.

Il tutto non è la somma delle parti

“L’artista non sono io, sono il suo fumista” cantava Lucio Battisti in Don Giovanni. Viene difficile pensare che una frase del genere possa essere riferita a Paul Thomas Anderson, un autore dal talento sfrontato fino all’egocentrismo, oltre che strenuo difensore della pellicola e nel dettaglio del 70mm, strumento da lui privilegiato per analizzare le scaturigini e successive evoluzioni (rigorosamente, sia alte che basse) della cultura statunitense. Eppure è quel che succede in Junun documentario, tra l’altro girato in digitale, in cui Anderson segue, mettendosi da parte come il “fumista” di Battisti, il sodale Jimmy Greenwood (sue le colonne sonore di Il petroliere, The Master e Vizio di forma) in un percorso pan-teistico e pan-musicale nel cuore del Rajastan. È qui infatti, e nel dettaglio nel salone dell’imponente fortezza di Mehrangarh, che hanno luogo le sessioni di registrazione di un album che vede Greenwood collaborare con il compositore israeliano Shye Ben Tzur e un gruppo di musicisti indiani.

Con un sincero spirito di esplorazione e l’ebbrezza puerile di un neofita, Anderson ci lascia penetrare all’interno di questo gruppo eterogeneo, seguendone spesso in continuità le esecuzioni e lasciando sempre risplendere una protagonista d’eccezione: la musica, con il suo potere divinatorio, le sue imprevedibili commistioni di voci, generi e ritmi.
Presentato al festival di Roma dopo la premiere a New York e da allora già disponibile on line, Junun trasmette tutto lo stupore e l’ansia di apprendimento di questo viaggio musical-culturale vissuto da Anderson che, con un entusiasmo giocoso e bambinesco si cimenta persino con un drone, lasciandolo sorvolare la fortezza per poi penetrare nella sala prove e cogliervi i musicisti intenti nelle loro ardite commistioni sonore. Seppur concentrato nella resa delle sessioni, Anderson riesce anche a cogliere nel corso di questo suo lavoro di ascoltatore e osservatore delle interessanti e mai peregrine metafore. Il drone si identifica infatti con quel piccione sempre pronto a sovrastare dall’alto “la sala da musica”, ma è anche un’incarnazione del regista e dunque dello spettatore, intento a penetrare questo luogo “sacro” con discrezione e naturalezza.
Tutto assume un portato simbolico, è vero, ma risulta scevro da forzature – potremmo dire che è simbolico, ma non simbolista – dal momento che Anderson serba uno sguardo puro, limpido, e risulta sempre pronto ad accogliere quello che la realtà che lo circonda ha da offrirgli, per poi racchiuderlo in un contenitore-opera che in virtù di quello che mostra resta sempre aperta e ricettiva.

Si fanno notare in Junun, oltre al già citato piccione, altre curiose presenze zoologiche, come quei falchi che, al pari del drone, svolazzano sulla fortezza e vengono nutriti da un uomo che senza alcun timore gli lancia dei pezzi di carne cruda, i cui resti sfamano anche i gatti che circolano sulla terrazza. Ogni cosa o presenza fa parte dunque di un sistema collaborativo, tutti nel film comunicano e interagiscono, in una perpetua improvvisazione che segue leggi non scritte e imperscrutabili, ma innegabilmente funziona. Ecco allora che se l’energia elettrica è intermittente poco importa, tanto vale riposare, ci sarà tempo dopo per “pizzicare le corde di Dio” o quelle della reciproca comunicazione, ciascuno con il suo strumento.

Info
La scheda di Junun sul sito del Festival di Roma.
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