The Propaganda Game

The Propaganda Game

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The Propaganda Game è un interessante documentario su una realtà inconoscibile nella sua interezza come quella nordcoreana; classico nell’impostazione quanto fecondo nelle suggestioni che apre. Alla decima edizione della Festa del Cinema di Roma.

Giochi mediatici

Il regista Alvaro Longoria entra in Corea del Nord, per mostrare, da dentro, il sottile gioco della propaganda in una nazione blindata e militarizzata. La sua guida, il connazionale Alejandro Cao de Benós, “Delegato Speciale della Commissione per le Relazioni Culturali con l’estero”, è l’unico straniero a lavorare per il governo nordcoreano. [sinossi]

Se l’opinione comune vuole che gli ultimi decenni siano stati portatori di una sempre maggior trasparenza degli eventi (se non dei processi politici) sulla scena dell’informazione internazionale, resta, sul palcoscenico globalizzato, un grande “buco nero”, un rimosso volontario, un’area geografica e politica che sfugge alla mappatura dei nuovi media. Un vero e proprio mistero fatto di accerchiamento, militarizzazione interna ed esterna, tensione e sfida costante (e reciproca) col resto della comunità internazionale. Parliamo ovviamente del regime nordocoreano, oggetto di ipotesi e congetture più che di fatti, di mezze verità lasciate trapelare dalle autorità col contagocce, di immagini studiate ed attentamente selezionate dal governo; di un controllo sull’informazione talmente asfissiante da fare del regime di Pyongyang zona franca nel villaggio globale della comunicazione. Un regime oggetto di condanne di facciata ma facente parte dello status quo di fatto, che nel nostro paese ha trovato simpatie sorprendenti (ma neanche troppo) in personaggi politici come Antonio Razzi e Matteo Salvini.

Non è, The Propaganda Game, il primo documentario mai prodotto sulla Corea del Nord; ma il film di Alvaro Longoria (già produttore di Comandante di Oliver Stone) ha almeno il merito di approcciare il regime da un’ottica leggermente decentrata rispetto a quella standard, provando a proporre una riflessione a più ampio raggio sulla natura intrinsecamente mediatica (e sul conseguente funzionamento) dei processi politici nordcoreani. Quello che si gioca sul territorio della Corea del Nord, sopra il 38° parallelo (limite che divide il paese dalla cosiddetta Joint Security Area, zona cuscinetto col Sud) ma anche nella rappresentazione che del paese viene fatta dal di fuori, è appunto un vero e proprio “gioco”: un confronto mediatico in cui viene messo in campo da un lato un totalitarismo assolutamente originale, autoctono e legato alla storia del paese, e dall’altro un complesso di rappresentazioni diffuse, tra verità, calcolate esagerazioni, e incontrollabili leggende urbane, propagate tra le autostrade dei social media.
Il film di Longoria non ha quindi l’ambizione (e lo stesso regista lo ha ammesso) di arrivare a una “verità” che, nel caso della Corea del Nord, è probabilmente inconoscibile nella sua interezza: troppo forti e incontrollabili gli interessi contrapposti che muovono il flusso di informazioni, troppo peculiare la posizione dell’oggetto di indagine perché basti affiancare e giustapporre le diverse fonti. Lo scopo, piuttosto, è quello di indagare il funzionamento del “gioco” del titolo, dall’una e dall’altra parte; e di evidenziare quanto un regime come quello di Pyongyang basi la sua stessa esistenza (e la sua sopravvivenza) su una sua implicita mediatizzazione e spettacolarizzazione. In una scena viene messa in luce, non a caso, la passione per il cinema del presidente Kim Jong-Il (autore anche di un saggio intitolato Sull’arte del cinema) nonché la sua attenzione alla costruzione di un’industria cinematografica di regime: nulla di nuovo, viene da pensare, vista la preponderante attenzione che da sempre i regimi totalitari (“spettacolari” per definizione) dedicano alla Settima Arte.

Questo The Propaganda Game, tuttavia, è particolarmente efficace nel mettere in luce un’altra caratteristica (che è del tutto autoctona alla vita nordcoreana): alla spettacolarizzazione intrinseca di un regime che si autocelebra in ogni sua manifestazione, si sovrappone qui un’attenta selezione del materiale da mostrare all’esterno: non solo ai media occidentali, ma finanche al turista o allo stesso documentarista che visita il paese. Percorsi obbligati di visione (e racconto) del paese, che trasposti sullo schermo danno l’impressione di un vero e proprio “velo”: una verità di facciata, ad uso e consumo delle telecamere e dello sguardo occidentale, fittizia perché parziale, maschera e simulacro di una realtà effettiva solo ipotizzabile. La sequenza ambientata nella chiesa cattolica della capitale, corpo e istituzione che appare vagamente inquietante nel momento in cui se ne scopre la natura strumentale, è in questo senso emblematica.

Il documentario di Longoria si muove tra interviste a personalità interne al paese (la sua guida è rappresentata dal connazionale Alejandro Cao de Benós, convinto sostenitore del regime e unico straniero alle dipendenze dello stato nordcoreano) e rappresentanti delle principali istituzioni internazionali (le Nazioni Unite, i governi britannico e statunitense): il quadro, sempre attento all’equilibrio, dissemina interrogativi e quesiti (il primo, l’effettiva volontà da parte internazionale di disfarsi di un corpo estraneo come quello nordcoreano), lasciando, ed è una scelta precisa, il suo oggetto di indagine nella sua dimensione quasi esoterica. Lo fa con uno stile invero abbastanza piano, classico nel montaggio come nella scelta del materiale, solo abbellito con qualche estemporaneo accorgimento estetico (l’uso del grandangolo in alcune sequenze).
Data la quantità e la tipologia del materiale presentato, e le diverse suggestioni che questo introduce, si poteva forse osare leggermente di più sul piano della fattura espressiva delle immagini: ma il regista sceglie di registrare, più che di reinterpretare, e la sua è in fondo una scelta coerente con l’ottica che ha voluto dare al documentario. La “sua” Corea del Nord è visivamente la stessa che abbiamo visto, sporadicamente, nei nostri tg: ma, nella mente dello spettatore, l’oggetto si arricchisce di nuove suggestioni, aprendosi a ulteriori interrogativi e stimolando nuove ricerche. Sul piano intellettuale, nonché su quello puramente d’inchiesta, l’operazione ha sicuramente funzionato.

Info
La scheda di The Propaganda Game sul sito della Festa del Cinema di Roma.
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