Shinjuku Swan

Shinjuku Swan

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Dei film che Sion Sono ha regalato al suo pubblico in questo 2015, Shinjuku Swan è per ora il meno interessante: un gangster movie ben scritto e diretto, in cui però l’estro e le tematiche del regista restano oltremodo sacrificati.

Vivere e (non) morire a Shinjuku

Appena giunto a Kabukicho, quartiere a luci rosse del distretto di Shinjuku, Tatsuhiko viene preso sotto la sua ala protettiva da un potente boss, responsabile di un’organizzazione che procaccia ragazze per i locali del quartiere. Per le strade, però, infuria una guerra con un’organizzazione rivale, per il controllo del territorio… [sinossi]

Si è già scritto, con curiosità, dell’inusuale prolificità di Sion Sono in questo 2015, che ha portato il regista giapponese a dirigere ben sei film, tra cui uno per la TV: se uno di essi, l’ipnotico e suggestivo The Whispering Star, l’abbiamo visto alla recente Festa del Cinema di Roma, il Torino Film Festival quest’anno ha fatto sbarcare nel capoluogo piemontese (nella sezione After Hours) il trittico composto da Tag, Shinjuku Swan e Love & Peace. Una prolificità che, da più parti, ha provocato l’ovvio paragone tra Sono e il collega e connazionale Takashi Miike, da sempre maestro in tal senso: un accostamento che, in qualche misura, può essere valido anche per le tematiche trattate dai due film finora visti nel festival torinese (in attesa di Love & Peace, che si annuncia come il più interessante). Se la minaccia metafisica, declinata in chiave di horror grottesco, era al centro di Tag, in questo Shinjuku Swan si tratta il tema della criminalità giovanile e della vita nel quartiere di Kabukicho, zona a luci rosse di Tokyo facente parte del distretto di Shinjuku: tra donne, soldi e violente contese per il potere. Al centro della vicenda, l’ascesa e i dilemmi morali di un giovane appena arrivato nella zona, preso sotto la sua ala protettrice dall’esponente di spicco di un’organizzazione che si occupa di procacciare ragazze per i locali a luci rosse del quartiere. La fonte della sceneggiatura è un manga già adattato nel 2007 in una serie televisiva, inedito in Italia.

Sono parte quindi, qui, da un canovaccio molto classico, che si pone a metà tra lo yakuza eiga e il recente filone delle gang giovanili, mettendo in primo piano le peculiarità, le regole e le logiche di potere che caratterizzano la vita nel quartiere di Kabukicho. Se il tema della scalata di uno straniero all’interno di un microcosmo criminale è motivo caro al noir di tutte le latitudini, il regista lo declina qui alla luce di un gusto tipicamente locale, conferendogli la coloritura grottesca che da sempre è componente essenziale del suo cinema. L’impressione, tuttavia, è che qui Sono non si trovi del tutto a suo agio nell’approcciare un materiale ampiamente codificato, e che non abbia il coraggio di andare fino in fondo (come ha fatto in passato per altri filoni) nella sua opera di destrutturazione e rilettura critica dei suoi stilemi. La rigidità delle regole del genere (anche nella sua declinazione più ironica e grottesca) sembra qui costituire un impedimento per l’estro del regista, che resta un passo al di qua della smitizzazione, della consapevole demolizione, della messa a nudo ragionata dell’artificio cinematografico. La componente grottesca della vicenda è limitata alle estemporanee gag che vedono coinvolto il giovane protagonista nei suoi (tragicomici) tentativi di scouting tra le ragazze del posto: rappresentazione fin troppo scoperta della sua natura di disadattato, “alieno” in un contesto che cercherà di fagocitarlo.

In Shinjuku Swann Sono non ha dunque il coraggio di far deflagrare il suo materiale, nonostante i timidi tentativi di inserirvi, nella seconda parte, una componente melò e fiabesca. Si avverte, nella parentesi in cui si sviluppa la love story tra il protagonista e una prostituta, vessata dall’organizzazione rivale, la voglia del regista di adottare una rottura di tono più decisa, prendendo come spunto il libro della ragazza e la vicenda in esso raccontata (una favola cavalleresca, solo superficialmente accostata al soggetto del film). Una sottotraccia che (come si nota anche dall’insistenza sulle illustrazioni del volume) Sono voleva probabilmente approfondire e integrare maggiormente nella struttura del film, ma che resta invece involuta, accennata, a livello di semplice digressione.
Più forza ha invece, nel film, lo sfondo del quartiere di Kabukicho, tra luci al neon e iperrealismo, e la descrizione antropologica (anch’essa già vista, ma comunque precisa e puntuale) delle sue logiche e dei suoi rituali: un contesto in cui il piacere, lo svago e persino l’amore sono attentamente quantificabili e monetizzabili, e in cui (in una sorta di peana a una criminalità giovanile ingenua, “bambina” nell’attitudine) le contese vengono risolte senza l’ausilio di armi da fuoco. Non a caso, nel film vediamo sparare un’unica pistola, e, quando questo succede, è per una ragione precisa: perché chi ne ha subito il colpo ha voluto sovvertire, in modo da metterne in discussione le stesse basi, le regole della vita di Kabukicho.

Sono ha scelto quindi (ed è una cosa che non è avvenuta spesso, nella sua carriera) di tenere a freno la sua tendenza all’approccio obliquo e sopra le righe ai generi, adeguandosi più che in passato ai recinti e alle regole di un particolare filone: una scelta di cui però, invero, il regista sembra soffrire più di altri. Shinjuku Swan è ben scritto e diretto, ma manca di quella personalità, e di quelle cupe riflessioni abilmente mascherate dalla patina dell’intrattenimento, che avevano caratterizzato molte delle precedenti opere del regista. Forse (ma siamo pronti ad essere smentiti) tanta prolificità non è per lui la scelta migliore.

Info
La scheda di Shinjuku Swann sul sito del Torino Film Festival.
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