Iraqi Odyssey

Iraqi Odyssey

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Con Iraqi Odyssey il regista Samir, iracheno di nascita ma svizzero di adozione, racconta la diaspora della sua famiglia, dispersa in giro per il mondo.

Family Life

Bombe, guerra, uomini barbuti pieni di odio, donne piangenti avvolte nei loro veli, città distrutte: l’Iraq come viene raccontato dai media occidentali. Immagini contrapposte a quelle degli anni ‘50 e ‘70: film frivoli, donne emancipate e senza velo, uomini eleganti a passeggio per una città moderna, Bagdad. Come si è arrivati a tutto questo? Attraverso le vite della sua famiglia irachena – protagonista di una vera e propria odissea e ora sparsa in tutto il mondo – Samir esplora la storia del mondo arabo presentandoci gli esponenti di varie generazioni di una borghesia a volte laica, a volte religiosa, ma sempre progressista e ci racconta di un universo che parrebbe dimenticato. [sinossi]

Perché un film che si intitola Iraqi Odyssey si apre a Mosca, con la statua di Karl Marx che guarda in direzione del teatro Bol’šoj? E perché subito dopo un uomo di nome Jamal confida alla videocamera di essere nato a Bassora nell’ottobre del 1941, prima di lanciarsi in un ricordo della madre? C’è qualcosa di “troppo grande”, quasi impossibile da trattenere nel quadro cinematografico, che straborda in ognuna delle immagini di cui si compone il fluviale documentario di Samir; qualcosa che parla di vita, della diaspora di una nazione che fu laica e progressista, luce dell’Asia Occidentale pur con delle problematiche sempre vive e tutt’ora attuali – il rapporto con la popolazione curda, tanto per fare un esempio. Una nazione che si è disgregata prima ancora dell’arrivo delle bombe “intelligenti” sganciate dall’esercito statunitense, a capo di una coalizione, durante le due guerre del Golfo, quella del 1990 e quella del 2003 (la prima giustificata dall’Occidente come risposta all’invasione del Kuwait, la seconda per togliere dalle mani di Saddam Hussein le supposte, e mai trovate, armi di distruzione di massa); la popolazione irachena, abbandonata la propria terra, si è dunque dispersa per il mondo, in Europa come in Asia, e dall’altra parte dell’oceano, negli Stati Uniti d’America.
Lo stesso Samir, dopotutto, è parte integrante di questa storia. Nato a Baghdad nel 1955, tre anni prima del colpo di stato del generale ʿAbd al-Karīm Qāsim che diede vita alla repubblica, si trasferisce con i genitori in Svizzera all’età di sei anni; lì cresce, mentre in Iraq la situazione continua a dimostrarsi instabile, fino a quando nel 1968 il partito Ba’th prende una volta per tutte le redini delle istituzioni, spostando la nazione in direzione di una visione panaraba e socialista – visione che sarà distorta e poi gradualmente destituita da Hussein.

Dopo trent’anni di attività artistica e un numero non indifferente di corti e lungometraggi portati a termine, Samir si lancia nell’impresa improba di raccontare per immagini l’esodo di un popolo che abbandonato l’Iraq, si è disseminato in varie parti del mondo, raggiungendo tutti i continenti. Per portare a termine questo compito cinematografico Samir ha deciso di portare davanti allo schermo la storia della propria famiglia: i parenti del regista sono infatti dispersi ai quattro angoli del globo. Partendo da queste premesse Iraqi Odyssey si sviluppa dunque in modo da un lato canonico – le già citate “confessioni” dei vari parenti di fronte alla videocamera, in uno studio dallo sfondo neutro – e dall’altro del tutto estraneo alla prassi, mettendo insieme un albero genealogico che appare sterminato, forse persino infinito, come la stessa storia di una terra martoriata e amata, perduta e rimpianta.
Tra fotografie del tempo che fu, memorabilia familiari, interviste, viaggi in giro per il mondo e incontri con parenti più o meno conosciuti, Samir filma una vera e propria odissea: come il mitologico Ulisse cantato da Omero, anche Samir e i suoi parenti vagano alla ricerca di un ritorno, per lo più impossibile, all’amata terra natia. L’Iraq dunque come una moderna – eppur antichissima – Itaca, punto d’approdo ideale, sognato a occhi aperti e reso inapplicabile anche, in parte, per colpe di quell’Occidente che ha poi accolto i fuggiaschi, fornendo loro una nuova patria, surrogata e in qualche modo sempre fittizia.

Ma soprattutto Samir, durante le due ore e quaranta in cui passa in rassegna i membri della sua famiglia, traccia in Iraqi Odyssey un ritratto per molti versi anomalo – e poco tentato, purtroppo – del pensiero arabo e del modo di vita musulmano. Raffrontandosi con un panorama per lo più laico (ma anche religioso) e borghese, Samir delinea i contorni di un universo sommerso, dimenticato dai media e dalla storia, ma che racconta di un Islam perfettamente a suo agio nei rapporti con il resto del mondo, mai ottuso e in gran parte progressista, teso alla ricerca del moderno senza smarrire le radici della propria storia.
Ecco dunque che Iraqi Odyssey diventa, partendo dal racconto di una famiglia e della sua disgregazione, un viaggio nel cuore stesso del mondo arabo, spaccato straziante, dolcissimo e di rara precisione di un tutto su cui con troppa faciloneria si tende a esprimere un giudizio. Mettendo insieme i pezzi di un mosaico particolarmente complesso, Samir compie un’operazione non dissimile da quella portata a termine da Nicolas Steiner in Above and Below: nel fermo immagine di una o più generazioni si può trovare il punto di contatto, la connessione che dia il senso allo stare al mondo. Un organismo unico, anche se disperso (in zone desertiche per Steiner, in giro per il mondo per Samir), e che reclama il proprio diritto alla memoria. Un’opera monumentale e a suo modo sconvolgente, tra le visioni più stordenti di questo inizio d’anno – Iraqi Odyssey è stato proiettato alla quinta edizione di Cinema Svizzero a Venezia.

Info
Il trailer di Iraqi Odyssey.
  • iraqi-odyssey-2014-samir-02.jpg
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