Apprentice

Apprentice

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Da Singapore arriva un thriller carcerario che cerca di fare il verso al cinema hongkonghese e che perde ben presto la strada tracciata dalla buona idea di partenza: Apprentice di Boo Junfeng, in concorso in Un certain regard a Cannes 2016.

I fought the hangman and the hangman won

Aiman lavora in una prigione di massima sicurezza. Il boia del carcere, Rahim, lo prende in simpatia e lo incarica di fargli da assistente. E forse questo incarico gravoso è proprio quello che voleva Aiman, visto che ha un conto in sospeso con Rahim. [sinossi]

Il cinema di Hong Kong funziona solo a Hong Kong. Non è semplice operazione tautologica quella che si intende fare, anche perché se in Asia (ma non solo) c’è un tipo di cinema, soprattutto action e noir, che si cerca di imitare in ogni modo – magari anche senza farvi diretto riferimento – è proprio quello hongkonghese. Quel miscuglio inestricabile tra bene e male, quell’ambiguità morale – che discende dal noir americano ma che nell’ex colonia inglese ha conosciuto una fecondissima reinvenzione ed è tipica di film come Infernal Affairs – non è riuscita in fin dei conti a fare scuola. In Cina, nonostante gli enormi capitali a disposizione di questi ultimi anni, il gioco non riesce, soprattutto per via delle imposizione censorie; e così anche in paesi con una ben più ridotta tradizione cinematografica, quali per l’appunto Singapore, il tentativo è ad alto rischio.
Soprattutto se accade, come nel caso di Apprentice di Boo Junfeng, presentato in concorso in Un certain regard, che vi sia un range di co-produzione troppo ampio (Germania, Francia, la stessa Hong Hong e il Qatar, con Eric Koo e Pang Ho-cheung a fare da produttori esecutivi), finendo per far perdere il genius loci che è caratteristica essenziale e imprescindibile dell’action hongkonghese: è la sua natura di città sovrappopolata e allo stesso tempo isolata, di cattedrale nel deserto che ne connota l’essenza e da cui discende in particolare il genere poliziesco.

Ma, al di là degli ostacoli “genetici” (che pure nella città-stato di Singapore sarebbero adattabili), Apprentice fallisce anche per altri motivi, di mera abilità tecnica e forse anche di aderenza rispetto al genere. Boo Junfeng parte bene, con delle fondamenta apparentemente solide: un giovane lavora in un carcere di massima sicurezza e, ottenuta la fiducia del boia locale (a Singapore è in vigore la pena di morte), diventa il suo assistente; ma il boia è lo stesso che trent’anni prima, nell’esercizio delle sue funzioni, uccise suo padre e il protagonista lo sa bene e tiene appositamente nascosto al suo “cattivo maestro” questo scomodo segreto.
Ora, dati questi ingredienti, ci si immaginerebbe che Apprentice si potesse andare a definire come un serrato conflitto di caratteri, dove per l’appunto il bene e il male sono confusi, anche in linea ereditaria (visto che dal “male” paterno discende una figura positiva, quella del coscienzioso figlio, che anzi fa il poliziotto probabilmente anche per emendare le colpe familiari). Un po’ come Training Day, un po’ come per l’appunto Infernal Affairs.
E invece questo meccanismo non scatta mai, perché Boo Junfeng disperde il suo racconto nella sottotrama del rapporto tra il protagonista e sua sorella, non riuscendo tra l’altro a far emergere il dolore e il rimpianto dei personaggi rispetto alla figura paterna.

Di fronte alla mancanza di conflitti e di fronte all’assenza di un’escalation nel ritmo del racconto, vien allora da pensare che il vero intento di Boo Junfeng fosse quello di fare un film contro la pena di morte e non un film sull’ipotesi della vendetta. Ecco che allora il senso e il tono deraglia definitivamente nell’ultima parte, quando le cose si fanno più chiare e più grossolane, e quando emerge la natura basica di film a tesi. Ma, come insegna il boia nella scena più riuscita di Apprentice, una cosa sola deve imparare chi si cura dell’impiccagione dei condannati a morte, che la corda si tenda con le esatte proporzioni rispetto al collo dell’impiccato, né troppo corta, né troppo lunga. È dunque solo una questione di tecnica e non di etica, e così dovrebbe funzionare un film di genere: non ci si deve certo aspettare una lezione moralistica, quanto una esposizione di problemi, anche irrisolti, incarnati in una serie di ambiguità. Poi le idee in proposito tocca agli spettatori farsele.

Info
La scheda di Apprentice sul sito del Festival di Cannes.
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