La leggenda di Narayama

La leggenda di Narayama

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Presentata in versione restaurata al Cinema Ritrovato, la prima versione cinematografica, di Keisuke Kinoshita, del romanzo La leggenda di Narayama di Shichirō Fukazawa che poi avrebbe adattato anche Shōhei Imamura. Due punti di vista antitetici, tra i due grandi registi giapponesi, per confezionare due altrettanti capolavori.

La montagna sacra

In un remoto villaggio di montagna vige l’arcaica regola, dettata dalla miseria e dalla penuria di cibo, di abbandonare sulla cima di Nara tutti i vegliardi che hanno raggiunto i settant’anni. Orin, una vecchia donna, avvicinandosi all’età fatidica, si prepara al “pellegrinaggio” finale… [sinossi]

Con un monologo di un kurogo, il servo di scena vestito e incappucciato di nero del teatro kabuki e del teatro di bambole bunraku, si apre La leggenda di Narayama, nella prima versione cinematografica di Keisuke Kinoshita, presentata nella versione restaurata al Cinema Ritrovato di Bologna. Il kurogo declama l’introduzione a quello che si sta per vedere e agisce anche come una sorta di imbonitore. Si apre un sipario e il film che ne segue esibisce la sua dimensione teatrale, tutto girato in studio, avvalendosi di gigantesche, e meravigliose, scenografie, trentasei in tutto, e dell’apporto di un compositore di bunraku, per la musica eseguita con lo shamisen, e di un grande maestro di nagauta, la musica di accompagnamento degli spettacoli di kabuki.
Con questo stile originale, che non è assolutamente filologico visto che non è un adattamento da un testo classico teatrale, Kinoshita traspone per la Settima Arte un romanzo di grande successo, fresco di stampa. Uscì infatti l’anno prima del film. L’autore, Shichirō Fukazawa, riprende l’antica leggenda di Obasute yama, che racconta della pratica, diffusa per istinto di conservazione nei villaggi rurali, di condurre i vecchi, ormai inutili e improduttivi, a morire in alta montagna. Si tratta di un’opera letteraria impregnata di una sorta di lirismo crudele e disumano, e di un senso di relativismo etico. Nella figura di Orin, nella sua rassegnazione al sacrificio per il bene della comunità, si può vedere quello spirito del sacrificio autenticamente giapponese, quel senso di nobiltà della sconfitta (in questo caso della vita) che ha portato, per esempio, ai piloti kamikaze della Seconda guerra mondiale. Lo scrittore Sei Itō Sei commentò “Il nostro sangue non può che scaldarsi alla lettura di questo romanzo”.

Più conosciuto il successivo adattamento dallo stesso romanzo, realizzato nel 1983 da Shoei Imamura che si aggiudicò la Palma d’oro a Cannes. Ed esiste anche una terza misconosciuta versione, opera del regista sudcoreano Kim Ki-young, dal titolo Goryeo jang (1963), concettualmente fedele al romanzo e vicina a quella di Imamura. Il senso forte che emerge, da questi due film più fedeli, è quello della crudezza, da un lato, e quello, dall’altro, di un estremo relativismo etico che si esplicita in alcuni momenti particolarmente forti, i ladruncoli che vengono puniti con una severità agghiacciante, seppelliti vivi, per aver rubato delle mele, e l’orgoglio e il desiderio della protagonista Orin di farsi immolare nella montagna sacra, consapevole di essere ormai un peso per la famiglia e la comunità. Cose agghiaccianti che minano il nostro senso della morale e ce lo fanno apparire quale un privilegio di una società agiata e opulenta. In un villaggio contadino, coperto per buona parte dell’anno da una coltre altissima di neve, la penuria estrema di cibo imponeva di adattare simili regole.
Keisuke Kinoshita invece si dissocia profondamente da questo assunto del romanzo e delle altre versioni cinematografiche. Ancora vivente all’uscita del film di Imamura, ebbe modo di bollarlo come pornografico per la crudezza quasi compiaciuta e l’assenza di filtri. Parliamo, per Kinoshita, di uno di quei registi dal forte senso umanista, pacifista che ha vissuto la Seconda guerra mondiale e che è più in linea con i principi illuministi che con l’etica arcaica giapponese o con il nazionalismo del suo paese. Il suo approccio fu definito dal grande Noël Burch quale quello di un sociologo positivista. Parliamo di un autore della generazione di Kon Ichikawa Kon e Akira Kurosawa, che si approccia al soggetto anche nell’ottica di trattare il tema della famiglia, un soggetto cardine della cinematografia nipponica come si ricorda per Yasujirō Ozu, collega di Kinoshita alla casa di produzione Shōchiku.

Kinoshita agisce nel senso del raffreddamento rispetto al romanzo, nei confronti del quale opera una serie di modifiche. La figura di Orin è vista come una vittima che subisce passivamente le condizioni avverse, secondo il modello della madre giapponese molto frequente al cinema. Una donna votata a sacrificarsi per la società, verso la quale il regista prova un sentimento di pietà, assente nel romanzo. Kinoshita reinterpreta anche il personaggio di Shinpei, il figlio di Orin e perfetto ‘chonan’ (primogenito), rendendolo il fulcro della narrazione, e facendolo diventare il proprio portavoce. Attraverso Shinpei, il regista esprime la propria indignazione rispetto alla vicenda: “Che sacrificio imbecille!” esclama, in una battuta assente nel romanzo, e nel finale, nel suo gesto di salvezza, abbiamo proprio il ribaltamento e il riscatto del personaggio.
Ma ovviamente, come si diceva, la grande presa di distanza avviene con il carattere presentazionale del teatro kabuki, con il senso forte di antinaturalismo e straniamento. Il romanzo di Fukazawa viene così rielaborato secondo uno spirito classicista, che ne sottolinea il carattere di finzione, bypassandone l’orrore, secondo uno stile ibrido cinema-teatro che nel cinema giapponese torna spesso, con opere come Doppio suicidio ad Amijima, Kaidan, Dolls e tante altre. E coerentemente a questa impostazione è anche la scena finale, anacronistica, che sancisce una pietra tombale definitiva alla storia raccontata. Che funziona come l’epitaffio finale di Barry Lyndon: i personaggi “buoni o cattivi, belli o brutti, ricchi o poveri, ora sono tutti uguali”.

Info
Il trailer de La ballata di Narayama.
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