Arrival

Linguaggio e scienza, apprendimento e preveggenza, Denis Villeneuve con Arrival porta in concorso a Venezia 2016 la sua personale lettura della fantascienza filosofica: ammaliante, terrificante, emotiva.

It’s just a question of time

L’atterraggio di navicelle aliene sulla terra pone un quesito all’umanità intera: guerra o pace? L’esercito chiama in causa un’esperta di linguistica per capire se le intenzioni degli invasori siano pacifiche o se, invece, rappresentino una minaccia… [sinossi – labiennale.org]

Ci sono registi che quando mettono la loro autorialità al servizio dei meccanismi e dei generi hollywoodiani danno il meglio di sé e riescono a infondere nuova linfa a quel sistema industriale statunitense che da sempre fa delle loro capacità il suo nutrimento vitale. Il canadese (originario del Quebec) Denis Villeneuve è senz’altro uno di questi. Dopo il celebrato, iperdrammatico ed eticamente discutibile La donna che canta, che lo ha rivelato al pubblico internazionale, Villeneuve si è infatti cimentato con successo e cristallino talento nel thriller più puro con Prisoners e lo ha poi declinato in una complessa e ammaliante parabola sul narcotraffico con Sicario. Adesso, con Arrival, in concorso a Venezia 2016, è il turno per lui di cimentarsi con la fantascienza filosofica per dare nuovo slancio al genere, togliendone l’esclusivo, ma temporaneo appannaggio, al Christopher Nolan di Interstellar.

Vera e propria indagine fanta-scientifica su quale sia il vero pilastro della nostra civiltà, Arrival racconta la storia, già innumerevoli volte portata sullo schermo, di uno sbarco alieno sulla terra, ma riesce a declinarla con convincente originalità e, partendo dalla dialettica tra linguaggio e scienza, la arricchisce di intuizioni filosofiche e sociologiche, senza mai perdere di vista l’entertainment, né l’attuale situazione geopolitica.
Protagonista è l’affermata linguista Louise Banks (Amy Adams) che ha da poco perso la figlia per una malattia incurabile e ora, insieme allo scienziato e matematico Ian Donnelly (Jeremy Renner), viene condotta dall’esercito in Montana, su uno dei dodici siti in cui gli alieni hanno deciso di posizionare i loro monolitici gusci neri. L’obiettivo dei due studiosi non è certo semplice: instaurare una comunicazione con i nuovi venuti e scoprire le loro reali intenzioni. Ma anche nei restanti undici luoghi dello sbarco sono in corso indagini simili, e il problema della “comunicazione” finisce per affliggere soprattutto i terrestri, presto fagocitati in una guerra fredda che rischia di trasformarsi in un conflitto armato internazionale.

La prima, pericolosissima arma in ogni guerra è la mancata comprensione del linguaggio del nemico e la nostra protagonista qui lo sa bene, al punto che si impegna senza remore nello studio del linguaggio “dell’altro” cercando al tempo stesso di rielaborare, senza troppi scossoni, il suo doloroso e recente lutto. Arrival va a fondo nella questione linguistica postulando una civiltà aliena in cui la comunicazione scritta precede quella verbale – interessanti e azzeccati i flashback in cui Louise insegna a parlare alla figlia – e dove l’ideogramma, e dunque l’immagine, è il principale significante, con tutte le infinite sfumature del caso.
Quanto al versante scientifico, anche qui Villeneuve non lascia nulla al caso, utilizzando ad esempio elementi scenografici che paiono provenire dall’alta diagnostica. Pensiamo all’interno della navicella, che con le sue zigrinature nere, appare come una sorta di utero visionato attraverso una strumentazione per l’ecografia, mentre gli alieni sembrano delle radiografie retroilluminate sullo schermo di un medico. Quella di Arrival è in fondo una diagnosi sull’umano, le sue componenti essenziali e irrinunciabili (il linguaggio e la scienza), ma non dimentica di fare acuti riferimenti all’attualità, mettendo in scena il ruolo sempre più centrale della Cina sullo scacchiere internazionale e allundendo certo agli attacchi terroristici quando porta sullo schermo le reazioni allo sbarco alieno.

Il ritmo e la tensione sono poi costanti, e se riecheggiano a tratti suggestioni da The Tree of Life (l’elegia della nascita e morte dell’incipit) o dal già citato Interstellar (lì al centro c’era la paternità, qui la maternità) Villeneuve si dimostra costantemente abbastanza scaltro da non indulgere in eccessi retorici, sbavature panteiste, facili sentimentalismi.
Considerando poi i ponderosi temi qui affrontati (consapevolezza e istinto, apprendimento linguistico, spazio e, soprattutto, tempo) bisogna riconoscere, e non senza un certo entusiasmo, che Arrival riesce a conservare sempre la sua credibilità, mantenendosi in un mirabile equilibrio tra scienza e fantasia, realtà e finzione. E questa sua qualità è da ascrivere soprattutto alla costante inventiva visionaria di cui Villeneuve fa ampio sfoggio, innescando colpi di scena narrativi e visivi, senza mai adagiarsi sulle sue intuizioni, ricercandone sempre delle nuove. Ma soprattutto, la forza e la credibilità di questa storia poggiano su due elementi fondamentali, sui quali il regista decide di edificare il tutto: la sua attrice (davvero ottima la prova di Amy Adams), scrutata e analizzata nell’epidermide prima che nell’anima o nella memoria, concreta dunque prima che astratta, e poi una soluzione dell’enigma semplice, cristallina.

Niente filosofeggiare dunque, ma filosofia, niente voli pindarici, ma scienza. O almeno così appare allo spettatore, dal momento che la sospensione dell’incredulità è innescata, come un meccanismo ad orologeria, nel corso di tutto il film e non ha alcuna intenzione di mostrare cedimenti.

Info
Il trailer originale di Arrival.
La scheda di Arrival sul sito di Venezia 2016.
Il sito ufficiale di Arrival.
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