The Journey

The Journey

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La Storia ridotta a maldestro entertainment: The Journey di Nick Hamm racconta la fine del conflitto nordirlandese e la firma tra le parti con tempi da show televisivo. E il gioco claustrofobico alla Locke non regge, dissolto da evidenti limiti di sceneggiatura. Fuori concorso a Venezia 2016.

La Storia non siete voi

Britannici e irlandesi hanno riunito i partiti politici dell’Irlanda del Nord a St. Andrews, in Scozia, per discutere un accordo storico. Improvvisamente, dopo i giorni bui dei Troubles, la pace sembra possibile. L’unico ostacolo è convincere il fervente predicatore protestante Ian Paisley e il repubblicano irlandese Martin McGuinness ad accettare l’accordo e governare insieme. Ma i due si rifiutano persino di rivolgersi la parola! [sinossi]

Vien da pensare un po’ a Frost/Nixon, un po’ a The Queen, un po’ a Locke, nell’assistere a The Journey di Nick Hamm, presentato fuori concorso a Venezia 2016. Vengono in mente questi titoli perché si vorrebbe lavorare qui sia sulle potenzialità di un set claustrofobico (in questo caso una macchina, come in Locke), sia sull’irresistibile tentazione di voler svelare quel che può/potrebbe essere accaduto nelle segrete stanze del potere. E quest’ultima è d’altronde una caratteristica tipicamente anglosassone, come insegna Shakespeare con i suoi drammi storici.
Il problema è che The Journey, di fronte alla possibilità molto interessante di misurarsi con una tanto nobile tradizione, finisce piuttosto per rifugiarsi nella morale facile, nella descrizione a-problematica dei suoi protagonisti e nella commediola barzellettistica.

Eppure, il fatto di aver deciso di raccontare l’episodio degli accordi di Saint Andrews che nel 2007 hanno definitivamente chiuso il conflitto nordirlandese – chiamato The Troubles con tipico eufemismo british – meritava forse un certo tatto, anche in considerazione dei tantissimi cadaveri lasciati sul campo di questo pluridecennale scontro (dalla fine degli anni Sessanta più di 3000 morti).
E, invece, due dei nemici acerrimi e dei volti più noti di queste opposte barricate, vale a dire il reverendo protestante e filo-britannico Ian Paisley e il leader politico dell’indipendentista e anti-inglese Sinn Féin – braccio politico dell’IRA – Martin McGuinness, vengono ritratti come se si trovassero in un buddy movie alla Jack Lemmon e Walter Matthau. I due – assoluti protagonisti – sono interpretati da Timothy Spall (che è totalmente insopportabile con le sue faccette e la sue mossette), e da Colm Meaney (che almeno non è urticante), e passano tutto il tempo a rimbeccarsi e a rimbrottarsi, a farsi dispetti e scherzetti, come in una vera e propria riedizione della celebre strana coppia. Una rimpatriata tra vecchi amici, invece che un incontro in cui è stato segnato il destino di un popolo, decretando finalmente la pace. Con citazioni parodiche persino da Tarantino, visto che ad un certo punto Paisley/Timothy Spall si mette a declamare la bibbia incutendo il terrore in un ragazzo così come in Pulp Fiction faceva Samuel L. Jackson (che viene anche citato più volte, tanto per depositare con forza l’informazione nella mente dello spettatore più distratto).

E, se appare necessario criticare l’impostazione ideologica del film – annullare i conflitti, smussare le asperità, rimuovere sostanzialmente la Storia -, non di meglio ci si sente di dire al cospetto dello svolgimento e dei vari snodi narrativi. Incredibilmente, i due – sorvegliati da irlandesi e inglesi con telecamere a circuito chiuso – si ritrovano isolati in macchina, senza la possibilità di essere recuperati, nonostante tutto l’enorme spiegamento di forze previsto per l’occasione. Mentre, nel frattempo, il loro autista – che un po’ fa finta di essere fesso, un po’ lo è davvero – combina un disastro dopo l’altro. E, mentre ogni dieci minuti circa attacca un bell’intermezzo: paesaggi boscosi su dissolvenze incrociate. Non sia mai che il pubblico faccia troppa fatica a cercare di seguire cosa dicono i due, permettiamogli ogni tanto di spegnere il cervello.

Tra l’altro questi intermezzi, dalla cadenza prettamente televisiva, finiscono per autorizzare l’idea che Hamm abbia concepito The Journey come una sorta di TV show, dove la Storia diventa materiale per fare del maldestro entertainment e dove i due protagonisti sono come due vip sul viale del tramonto che si prestano a fare un reality. D’altronde, fino a qualche anno fa, c’era in Italia un programma simile, Milano-Roma, in cui era previsto un viaggio in macchina tra due star della TV. Chissà se Hamm l’ha visto. Magari l’avrebbe aiutato a capire che doveva costruire un discorso un po’ più complesso.

Info
La scheda di The Journey sul sito della Mostra del Cinema di Venezia.
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