Venezia 2016 – Bilancio

Venezia 2016 – Bilancio

Come il secondo mandato di Barbera si era aperto con una vittoria dell’Asia grazie a Kim Ki-duk, il terzo è inaugurato dal trionfo di Lav Diaz, che ha dato il via a una polemica come sempre sterile sul ruolo della Mostra di Venezia 2016.

I corsi, che siano triennali o quadriennali, della Mostra sotto la gestione di Alberto Barbera sembrano aprirsi sempre con una vittoria del cinema dell’Asia più lontana. Nel 1999 fu la volta di Non uno di meno di Zhang Yimou, nel 2012 toccò invece a Kim Ki-duk e al suo Pietà, ritorno del regista sudcoreano al Lido a distanza di otto anni da Ferro 3 – La casa vuota. Nel 2016, con l’incarico commissionato a Barbera fino al 2020, il Leone d’Oro si ritrova nelle mani di Lav Diaz, premiando per la prima volta un film prodotto nelle Filippine, nazione che nel terzo millennio aveva preso parte solo due volte al concorso, e sempre con Brillante Mendoza (nel 2009 con Lola e nel 2012 con Thy Womb). La vittoria di The Woman Who Left ha subito innalzato il livello dello scontro da parte di chi vorrebbe una Mostra più vicina ai gusti del pubblico generalista, lamentando le difficoltà distributive cui andrà incontro il film di Diaz, per una durata considerata eccessiva – solo sulla carta, visto che è la stessa, su per giù, di alcuni titoli di culto della storia del cinema, che nessuno oserebbe mai mettere in discussione – e per la scelta cromatica del bianco e nero, ma in realtà la querelle alimentata ad hoc da una determinata parte di stampa e addetti ai lavori permette almeno di dare il via a un dibattito sul ruolo dei festival.
A cosa servono dunque i festival, a sostenere il sistema culturale di una nazione o a proporre vie alternative allo stesso? Si è davvero letto di tutto sulla vittoria di Diaz, dall’accusa di allontanare gli spettatori dalle sale a quella di voler arroccare la Mostra su posizioni cinefile oltranziste e rattrappite. Un simile accanimento, condotto a mezzo stampa anche attraverso prese di posizione di intellettuali e sedicenti tali, non ha molti eguali nella storia recente del festival, e fa tornare in mente quel che accadde nel 2006 quando il Leone fu assegnato a Still Life di Jia Zhangke dalla giuria capitanata da Catherine Deneuve. Nel 2006 come oggi il film vincitore era stato saltato a pie’ pari da buona parte degli accrediti stampa, con lo snobismo che colpì anche Apichatpong Weerasethakul a Cannes nel 2010, trionfatore con Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti. Sarebbe forse il caso di smarcarsi una volta per tutte da questa visione utilitaristica dei festival; eventi come Venezia, Berlino, perfino la mastodontica macchina di Cannes, non possono essere ridotti a un mero contenitore di film da promuovere agli occhi degli esercenti – e poi del pubblico – di mezzo mondo.

Ogni anno che passa le polemiche sulla ricezione di questo o di quell’altro film (il fatto che si faccia quasi esclusivamente riferimento a opere di una determinata zona geografica non è certo casuale, e apre il fianco a un’altra dolorosa questione, relativa allo sguardo coloniale ancora troppo spesso imperante) si fanno più stucchevoli, prevedibili, persino risibili. La Mostra nel 1951 premiò Rashomon, primo film giapponese a uscire dal proprio paese per confrontarsi con il mondo occidentale; e certo non possono essere considerati di facile fruizione – sempre che questo concetto abbia un senso compiuto, e c’è da dubitarne – titoli come Ordet, Aparajito, Artisti sotto la tenda del circo: perplessi o Città dolente, tutti usciti vincitori dalla corsa al Leone d’Oro. Chi dunque parla di mutazione dei festival in corso negli ultimi anni dimostra di possedere una visuale storica piuttosto ristretta. Nel suo articolo di bilancio su Venezia 73, Emilio Ranzato su L’Osservatore romano scrive: “Il cinema d’autore ormai attira soltanto qualche critico e gli addetti ai lavori, non più un pubblico anche solo relativamente ampio, oggi del tutto diseducato dagli standard televisivi”. Un concetto su cui sicuramente vale la pena di riflettere, ma per il quale è fuori luogo accusare il festival.
Semmai è il sistema culturale italiano, a partire dall’immobilismo del Ministero fino ad arrivare alla pigrizia di distributori, esercenti, televisioni e – in ultima battuta – pubblico, a doversi porre dei seri interrogativi sullo strappo che si sta aprendo con sempre maggiore evidenza tra chi pensa il cinema e chi sembra oramai solo “subirlo”, senza avere più gli strumenti minimi per approcciarvisi. Se la Mostra, così come ogni evento pubblico, diventa solo l’occasione per elencare i buoni e i cattivi, come facevano a scuola le spie di maestri e professori, accontentandosi di amare e odiare questo o quell’altro autore, e a lista completa decidendo se il festival è stata un’esperienza positiva, allora la battaglia è persa in partenza. Non è nella vittoria di Lav Diaz – sulla quale diventa difficile obiettare quando si abbandonano dettagli come durata e colore e ci si concentra sulla lettura del cinema –, né nella presenza in concorso di titoli che avrebbero meritato altra collocazione, che si può scegliere la parte della barricata nella quale stazionare.

Quel che dovrebbe preoccupare davvero chi alla Mostra tiene (e non solo come facciata di una nazione derelitta sotto il punto di vista della promozione culturale) non è se gli italiani restano a bocca asciutta, ma l’immagine che la macchina/cinema dà di sé all’esterno. La sala Giardino, blocco rosso a coprire finalmente l’orrido lasciato all’aria aperta negli ultimi anni, è un passo nella direzione giusta, nonostante qualche piccolo problema iniziale – le sedie “scollate” che hanno rischiato di far cadere gli spettatori all’inaugurazione, con Kim Ki-duk in sala per presentare The Net –, ma il Lido continua a vivere un vera e propria diaspora di presenze. Gli accrediti smarriti negli ultimi anni non sono tornati sui propri passi, e se questo agevola la vita lavorativa alla Mostra (maggior facilità di accesso in sala, eccezion fatta per le piccole Volpi e Casinò, e in sala stampa, dove un tempo si doveva combattere per trovare posto di fronte a un pc), fa apparire la kermesse lagunare come una pallida eco della Croisette. Certo, Cannes ha dalla sua il mercato, ma non è un motivo sufficiente, così come non basta accontentarsi di riferimenti alla crisi economica che rende più difficile lo spostamento.
La Mostra arranca anche perché il Lido continua a essere una terra inospitale, priva delle strutture necessarie per agevolare e rendere più piacevole la quotidianità del festival. Prezzi esorbitanti, qualità scarsa delle vivande (per di più monotematiche), ecco due dei nemici giurati della Mostra, tanto per rimanere nel campo del minimo indispensabile. La responsabilità è una volta di più della Biennale, ma sarebbe ingenuo non tirare in ballo una volta di più il MIBACT. Dove si dovrebbe vedere la volontà del Ministero di intervenire in difesa di Venezia per restituirle quel ruolo centrale che le spetta di diritto? In quale modo si sta operando per far sì che i problemi che ancora attanagliano la Mostra vengano risolti? Perché una volta di più si rinuncia ad aprire un dibattito serio sulla questione, dove si faccia a meno di rimproverare questa o quell’altra scelta al direttore di turno e si scavi in profondità? Per quanto vada di moda ridicolizzare la Mostra negli ambienti radical-chic (quelli che gridano al pop spesso facendo finta che sia sinonimo di trash, e che hanno contribuito ad affossare il senso di cultura di una nazione), è da lei che bisogna ripartire per mettere in moto di nuovo un sistema culturale non traballante, quasi definitivamente defunto.

Compito di una “Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica” non è quello di individuare e selezionare i successi al botteghino della stagione successiva – a fare questo mestiere bastano spesso i monopoli distributivi e i battage pubblicitari – né di aiutare la produzione nazionale, come vorrebbe chi invoca maggiori premi ai film italiani e poi non si ricorda di citare l’unico premiato, Liberami di Federica Di Giacomo, ma è quello di mettere in mostra l’arte del cinema. Il senso di un festival poi non è solo quello di affastellare più star possibili in cartellone, ma di creare uno spazio, un luogo collettivo e comunitario dove artisti, addetti ai lavori e appassionati possano incrociarsi, scambiarsi opinioni, vedere gli uni i lavori degli altri. Un luogo non dissimile da quello allestito dalla Settimana Internazionale della Critica, che forse non a caso ha ospitato alcuni dei titoli migliori visti al Lido, da Jours de France di Jérôme Reybaud a Singing in Graveyards di Bradley Liew e The Last of Us di Ala Eddine Slim, che ha vinto il Leone del Futuro come miglior opera prima vista alla Mostra. Se il Lido è oramai una versione lagunare della wilderness, bisogna ricostruire un luogo che sia comune, dove sia possibile sentirsi a “casa”. A giudicare da ciò che si sta leggendo e sentendo in giro solo perché “un filippino di quattro ore” è stato preferito a La La Land (il titolo prediletto, a quanto si intuisce, da questa fazione), la strada da percorrere è davvero lunga. Molto lunga.

Info
Il sito di Venezia 2016.

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