Romeo and Juliet

Romeo and Juliet

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In cerca di un “terzo linguaggio” tra cinema e teatro, Kenneth Branagh e Benjamin Caron portano nelle sale Romeo and Juliet cercando di filmare in modo creativo una delle tante repliche teatrali dello spettacolo. Ma l’operazione è più preoccupata di essere elegante a tutti i costi che veramente ispirata. Al TFF per Festa Mobile.

Oh cinema cinema, perché sei tu cinema…

Con la collaborazione di Benjamin Caron per la regia cinematografica, Kenneth Branagh filma il suo recente “Romeo and Juliet” teatrale, stavolta ambientato nell’Italia modaiola della Dolce Vita anni Cinquanta. La vicenda è quella immortale di sempre, l’amore contrastato e tragico tra i due giovinetti Romeo e Giulietta, divisi da due famiglie nemiche in quel di Verona… [sinossi]

Partiamo da un dato abbastanza banale. Rivedere Romeo and Juliet, in qualsiasi formato, in qualsiasi veicolo espressivo (teatro, cinema, tv, o spettacolo di burattini), è sempre un piacere. Dalla rappresentazione più ossequiosa a quella più provocatoria, dai templi del teatro alla più scalcinata compagnia di provincia, il piacere di abbandonarsi a vicende, personaggi e dialoghi ben conosciuti si rinnova ogni volta. E sul finale si piange, ogni volta, come fosse la prima.
Storia d’amore assoluta, perfetto e imperfettibile melodramma ante litteram, nessuno ha mai raccontato (e racconterà mai più) l’amore impossibile come ha fatto Shakespeare circa 500 anni fa. Per cui anche il Romeo and Juliet che adesso Branagh porta nelle sale cinematografiche corre via che è un piacere, si lascia bere come una sorsata di Assoluto, se ci affidiamo niente più che alla forza incorruttibile del testo. Poi subentra lo sguardo critico, il ragionamento, la riflessione, e i tanti dubbi.

Dopo aver dato vita a una filmografia pressoché totalmente shakespeariana, stavolta Kenneth Branagh ha condotto un’operazione diversa. Ha scelto di far filmare da plurime macchine da presa in simultanea una rappresentazione teatrale del suo ultimo allestimento di Romeo and Juliet, affidando la regia cinematografica a Benjamin Caron e cercando una via espressiva alternativa alla vera e propria trasposizione cinematografica. Niente di nuovo, beninteso, dal momento che l’idea di spettacolo filmato non nasce certo con Branagh. Così come non è nuova l’idea di applicare alle riprese di una rappresentazione teatrale i principi del montaggio, sfruttando le multicamera simultanee per ricucire successivamente un “film” che utilizzi strumenti specificamente cinematografici come la scala dei piani o scelte eccentriche d’inquadratura. Il risultato non è cinema, neanche teatro, ma al momento non sembra neanche preconizzare la nascita di un “terzo linguaggio”. Ci vorrebbe forse un filo in più di spregiudicatezza, una riflessione più profonda sull’interazione tra i due linguaggi, la voglia di “fare a pezzi il teatro” tramite il cinema per ricavarne riflessioni più pregnanti.
Al momento Romeo and Juliet di Branagh/Caron non è altro che un prodotto a uso e consumo della nascente diversificazione delle finalità di sala, fenomeno sul quale vi è molto da discutere e che in Italia da qualche anno sta occupando le programmazioni per un giorno o due a settimana. Un prodotto pronto e ben cucito per le esigenze di un pubblico midcult, che magari non ha la disponibilità di andarsi a vedere il teatro di Branagh a Londra e quindi si accomoda nel cinema vicino casa per accontentarsi delle sue riprese.
Fenomeno ben diverso, si badi bene, da forme ibride come il “film d’opera” (ne parlavamo pochi giorni fa in occasione di Giuseppe Verdi di Raffaello Matarazzo), che democratizzava l’opera musicale ma restando ben saldo nel fatto cinematografico.

In tal senso Romeo and Juliet suscita riflessioni non soltanto nell’ordine del linguaggio, ma anche sui mutamenti di abitudini fruitive e di paesaggio mediale ai quali stavolta verrebbe voglia di mettere un freno. Non tanto (e non solo) perché vedere gli schermi cinematografici riempirsi di spettacoli teatrali, balletti, opere o concerti musicali ci fa male al cuore, ma anche perché tale nuova ondata non sembra supportata da prodotti di vera qualità. Dove per qualità s’intende una reale riflessione sui rapporti tra forma d’arte e canale, o se vogliamo sul meticciato tra forme d’arte diverse.
Malgrado gli evidenti sforzi di animare il prodotto con ampia varietà di piani, Romeo and Juliet resta comunque prigioniero della sua fonte teatrale, a cui non giova, per uno strano effetto di allontanamento emotivo, la conservazione delle reazioni del pubblico pagante, che ogni tanto fa pure capolino in inquadrature dall’alto.
Branagh fa pure precedere la rappresentazione da una serie di testimonianze di teenager sul significato dell’amore adolescente, cercando di legare il testo shakespeariano alla sua valenza immortale e universale. Ma il tutto sa davvero troppo di fighetto e di midcult, e a tale mood concorre in modo decisivo pure l’utilizzo del bianco e nero, che nelle intenzioni di Branagh e Caron dovrebbe essere foriero di caratura cinematografica, e risulta invece lettera morta, solo un ulteriore giro di vite su un’insistita eleganza cheap.

Come dichiarato dallo stesso Branagh, in realtà l’opzione del bianco e nero sta a coronamento di un’adesione originaria al meticciato tra cinema e teatro che già animava la rappresentazione teatrale. Stavolta infatti Branagh ambienta la vicenda dei due sventurati veronesi nell’Italia degli anni Cinquanta, in cui dominano abiti e gestualità da Dolce Vita. Branagh non è nuovo a tali contaminazioni spazio-temporali nella rilettura di Shakespeare, e del resto non è nemmeno solo. In 500 anni di storia Shakespeare si è visto rivoltare come un calzino a seconda dell’ultima bizzarria autoriale, in un’incessante isteria di rilettura.
Nei suoi film tratti da Shakespeare Branagh aveva già fatto ricorso ad ambientazioni eccentriche e annessi sontuosi costumi, con risultati spesso meramente illustrativi. Pure stavolta la ricollocazione da Dolce Vita appare niente più di un’occasione di facile “eleganza”, tanto per fare sfoggio di bei costumi e pertinenti acconciature. Se già lo spettacolo teatrale prevedeva tale ambientazione, adesso in tale “film-teatro” è convocato il bianco e nero per chiudere con ulteriore coerenza l’evocazione di un ben preciso orizzonte culturale.
A Branagh, in sostanza, piaceva l’idea di filmare il suo spettacolo con la fotografia e le suggestioni luministiche del cinema italiano d’epoca, con particolare riferimento a Fellini. Ma ancora sorgono dubbi di fighetto e di midcult, soprattutto per la statura di simulacro equivocato che proprio il povero Fellini assume nel contesto internazionale, in particolare anglosassone. Dietro a tali contaminazioni ed evocazioni fluttua sempre un’idea estremamente superficiale del cinema felliniano, che si concretizza in reminiscenze affidate soltanto a toilettes e abbigliamenti (basti pensare al pessimo Nine di Rob Marshall). E risulta decisamente beffardo che un cinema così personale, lontano anni luce da un’idea di “nazional-popolare”, sia spesso letto nel contesto mondiale come pura testimonianza di una marca nazionale.
Per cui il bianco e nero di Branagh/Caron è di nuovo lettera morta, strumento di mistificazione, oggetto che resta tale e non rimanda ad altro. In più, mettiamoci che il problema sta probabilmente anche nel manico, ovvero in una rilettura teatrale che affida il personaggio di Romeo al debolissimo Richard Madden (visto di recente nella tv italiana in I Medici) e trasforma Mercuzio in un attempato e gaudente dandy, incarnato dal glorioso Derek Jacobi con accenti spiritosi e allusioni omosessuali: scelta che sfiora comunque il totale arbitrio, benché nell’introduzione Branagh si prodighi per spiegarne le ragioni con riferimento alla figura di Oscar Wilde. Insomma, i tempi per tali contaminazioni fruitive forse non sono ancora maturi. E si spera, anzi, che non maturino mai, e che la sala ritorni a ospitare solo ciò per cui è nata. Saremo reazionari, ma tale deriva non ci piace.

Info
La scheda di Romeo and Juliet sul sito del Torino Film Festival.
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