Gli abbracci spezzati

Gli abbracci spezzati

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In concorso al 62º Festival di Cannes, Gli abbracci spezzati è cinema che vuole auto-alimentarsi, bastandosi e nutrendosi con le proprie ossessioni di celluloide, completamente avulso da quella realtà di drammi che vorrebbe raccontare.

Fare film per me è vivere…

Un uomo scrive, vive e ama nell’oscurità. Quattordici anni prima è stato vittima di un brutale incidente d’auto in cui non solo ha perso la vista, ma anche la donna della sua vita, Lena. [sinossi]

È ingolfata l’ultima pellicola di Pedro Almodóvar. Ingolfata di parole, gesti, sguardi. Talmente ingombra da sembrare quasi immobile, ferma, mummificata. Almodóvar ha provato a fare con Gli abbracci spezzati una summa del proprio cinema, un bilancio sullo stato della sua arte. Un intimo ma con tanta fantasia in meno e un mare di parole in più, forse per colmare un vuoto che, evidentemente, l’immaginazione del regista spagnolo non riesce più a colmare altrimenti. Gli abbracci spezzati è cinema che vuole auto-alimentarsi, bastandosi e nutrendosi con le proprie ossessioni di celluloide, completamente avulso da quella realtà di drammi che vorrebbe raccontare.

Drammi, però, per nulla umani, vivi, veri, ma solo scritti, visti, parlati, detti, al massimo sfiorati. Abbracci rotti più che interrotti, mancati anzi, pallidi ricordi di una vita che questi personaggi non hanno mai vissuto. Gli abbracci spezzati è una pellicola che si vorrebbe cibare di cinema, ma non fa altro che ostentarne una pur lontana parentela: è cinema, dunque, che ossessivamente prova a nascondere i propri (troppi) limiti teorici, riempendo di proprie immagini lo schermo, riproducendosi continuamente sull’emulsione della pellicola. Un melodramma sfiorito, regalato quasi alla sua eterna musa Penélope Cruz che viene omaggiata continuamente da Almodóvar in ogni inquadratura, pur se trattata male narrativamente (la fa volare dalla scale e poi ci sarebbe anche dell’altro…), quasi carezzata con la macchina da presa. Ma è l’unico segno di vita di un film troppo rinchiuso nella volontà di farsi memoria visiva nel momento in cui la pellicola passa nel caricatore, troppo denso per farsi emozione e incanalarsi nel cuore e finendo invece con lo stagnare a livello della testa.

Tanti, troppi i riferimenti cinematografici quasi staccati a sé e che non consentono uno sviluppo corretto a un film che sembra troppo un puzzle di immagini (quelle di cui Diego prova a  mettere insieme i pezzi?), spesso ingrandite alla ricerca di un particolare altresì sfuggito (un Blow-Up versione digitale). Troppe catarsi, troppo il peso affibbiato a ogni singola immagine, a ogni richiamo metacinematografico, dai viaggi alla ricerca delle tracce di un’altra esistenza (Viaggio in Italia) alle ossessioni del noir classico e agli sguardi hitchcockiani su cui è imperniata la pellicola. Sembra che solo attraverso la cinefilia il regista spagnolo possa proseguire il proprio discorso cinematografico. Ridicolo anche, per certi versi, in certi colpi di scena e in alcune soluzioni narrative che riducono letteralmente la pellicola a reggersi in piedi con lo scotch e a non saper più camminare da sola se non con una stampella.

Restano alcuni bei momenti – su tutti quello in cui Harry seduce una ragazza appena conosciuta che lo ha aiutato ad attraversare la strada, facendo partire la donna da una propria descrizione e dunque metaforicamente cominciando a lavorare sulla parola (sceneggiatura) per poi arrivare a una sua immagine ben definita, dunque cinema tout court – in cui l’erotismo almodóvariano emerge in tutta la sua grande forza. Ma è l’unico lampo di un cinema meramente museale.

Info
Il trailer de Gli abbracci spezzati.

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