Ruggine

Tratto dal romanzo omonimo di Stefano Massaron, Ruggine è un bildungsroman imbastardito e crudele, costruito mettendo in contrapposizione gli eventi di un’estate sul finire degli anni Settanta coi nostri giorni, dove ritroviamo i tre protagonisti adulti, spaesati e costretti a confrontarsi con il grande freddo di una società nella quale non riescono a trovare uno spazio. Un’opera pessimista e del tutto estranea al panorama italiano, come sempre per quel che concerne il cinema di Daniele Gaglianone, che si dimostra una volta di più libero ed estraneo a qualunque compromesso.

L’orco

Ruggine racconta la difficile pre-adolescenza di una gang di ragazzini, immigrati meridionali nel desolato quartiere gli Alveari alla periferia di una grande città. Nella terra di nessuno, tra città e campagna, un grande deposito – immenso “mostro” di rugginosi rottami metallici – è il luogo del gioco e dell’avventura. D’improvviso un altro mostro irrompe, stavolta in carne ed ossa. Due bambine vengono violentate e uccise e d’un tratto tutto cambia: le scaramucce tra bande avverse, le esplorazioni, i primi timidi sentimenti, l’affannosa ricerca del proprio ruolo nel gruppo vengono cancellati dal pericolo, in quell’estate di paura che ciascuno porterà nella memoria come un insostenibile fardello. Trent’anni dopo Sandro, Carmine, Cinzia sono ancora marchiati da quell’esperienza incancellabile che ha traumaticamente segnato la fine dell’infanzia… [sinossi]

È fin troppo facile immaginare quale possa essere la reazione di parte della critica italiana di fronte al quarto lavoro sulla lunga distanza dell’anconetano – ma torinese d’adozione – Daniele Gaglianone: risate tese a nascondere un misto di imbarazzo e repulsione, indici puntati contro l’approccio del cineasta a una materia scottante e sempre attuale. Tratto dal romanzo omonimo di Stefano Massaron (già traduttore in italiano, tra gli altri, di James G. Ballard e Jonathan Coe), Ruggine narra l’infanzia periferica e spudoratamente libera di un gruppo di bambini sui quali grava l’ombra di un dottore pedofilo che li sevizia prima di ucciderli: mentre l’intero caseggiato popolare grida al mostro senza riuscire neanche a intravedere il bandolo della matassa, la banda capitanata dal gentile ed efebico Sandro, la volitiva e matura Cinzia e il duro Carmine dovrà combattere con tutte le proprie forze per avere la meglio sulla terribile minaccia.
Un bildungsroman imbastardito e crudele, costruito mettendo in contrapposizione gli eventi di un’estate sul finire degli anni Settanta del secolo scorso con i giorni nostri, dove ritroviamo i tre protagonisti adulti, spaesati e costretti a confrontarsi con il grande freddo di una società nella quale non riescono a trovare uno spazio realmente adatto a loro. Un doppio binario narrativo reso ancora più evidente ed efficace dalla splendida fotografia approntata da Gherardo Gossi (sodale di Gaglianone fin da I nostri anni, ha lavorato anche sui set di Nanni Moretti, Guido Chiesa, Davide Ferrario, Daniele Vicari e Susanna Nicchiarelli), che ai toni saturi e polverosi degli anni Settanta risponde con timbriche fredde, tendenti al bluastro e allo scuro: una scelta che si perpetua anche nella diversa interpretazione della realtà, estremizzata ed esagerata nel passato quanto minimale, dedita al silenzio e all’introspezione nel presente.

Ed è con ogni probabilità proprio la messa in scena della periferia di trentacinque anni fa il nodo gordiano attorno al quale rischia di esplodere la polemica critica, in particolare per la lettura del personaggio del pedofilo, affidato alle cure di Filippo Timi: un vero e proprio mostro, dagli occhi fiammeggianti e il sorriso a mezza bocca, figura ferina, quasi demoniaca, pronto a ghermire gli innocenti quando meno se lo aspettano, volgare e completamente fuori controllo (nonostante il ruolo pubblico svolto nella propria professione). Un personaggio slabbrato e laido, che Timi interpreta senza alcuna reticenza, puntando anzi a una voluta e paradossalmente controllata esibizione di sé: in molti forse si sarebbero aspettati una lettura più politicamente corretta, o quantomeno maggiormente “realistica”, di un essere umano problematico e complessato, dimostrando in questo modo però di non riuscire a comprendere l’istinto autoriale che ha guidato la mano di Gaglianone.

Ruggine non è un film di denuncia, né si prefigge l’obbiettivo di scandagliare fino in fondo le abiezioni umane e i percorsi sinaptici che ne accendono la miccia: si tratta piuttosto di una fiaba nera, viaggio nell’oscurità visto con gli occhi di alcuni bambini. Perfettamente funzionale, in tal senso, la scelta di lavorare in fase di montaggio ripetendo le sequenze da diversi punti di vista (splendida la scena in cui i bimbi spiano il dottore in una delle sue crisi mentre si denuda in mezzo a un prato, deridendolo e ignorando, come invece viene palesato dal cambio di prospettiva, di averlo scoperto proprio nel clou di una delle violenze a una loro coetanea), escamotage non nuovo per Gaglianone. Timi, pronto a contorcersi e a confondere di fronte alla madre di uno dei bambini il termine giocare con chiavare, potrà anche apparire fuori misura nella descrizione del proprio personaggio, ma ciò che sta prendendo corpo di fronte agli occhi degli spettatori è un vero e  proprio orco, babau contemporaneo e terribilmente materiale e quotidiano da non indurre ad alcuna risata.
Come l’Hans Beckert di Peter Lorre o l’Harry Powell di Robert Mitchum (M, il mostro di Düsseldorf e La morte corre sul fiume sono due titoli ai quali Gaglianone ha sicuramente dedicato ben più di uno sguardo durante la lavorazione del film insieme, forse, al capolavoro letterario di Stephen King It), il dottor Boldrini nasconde in sé un valore metaforico che travalica il senso del reale: è il Male, la minaccia eterna che vince laddove riesce a disunire i bambini, staccarli gli uni dagli altri, colpendoli quando sono soli e vulnerabili. Non c’è arma in grado di combatterlo perché, come afferma una disillusa Cinzia ai suoi compagni di gioco “i grandi non ci crederebbero mai”: una verità che prende corpo quando oramai i tre sono adulti, e inesorabilmente soli. La battaglia ora non si combatte più in un fortino dimesso e scassato, e non basta farsi forza gli uni con gli altri per avere la meglio dell’Uomo Nero: il tempo non li ha cambiati, li ha del tutto sfigurati.

Un’opera pessimista e del tutto estranea al panorama italiano, come sempre per quel che concerne il cinema di Daniele Gaglianone, che si dimostra una volta di più libero ed estraneo a qualunque compromesso. Una menzione speciale alla canzone che accompagna i bei titoli di coda, cantata da Vasco Brondi alias Le luci della centrale elettrica.

Info
Il trailer di Ruggine.
Il backstage di Ruggine.
La scheda di Ruggine sul sito delle Giornate degli Autori.
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