Sette opere di misericordia

Sette opere di misericordia

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Sette opere di misericordia è un’opera ostica, sicuramente eccentrica rispetto alla produzione italiana, capace di stordire e di sorprendere, soprattutto per la sua compattezza stilistica. Un’opera di testa e di cuore, teorica e corporale, il cui discorso è contenuto interamente nella sua forma. La perdita del centro formale come riflesso della perdita di quella emotiva. Guardare (e sentire) in modo diverso come ultima possibilità.

La perdita del centro

Luminia, giovane clandestina che vive ai margini di una baraccopoli, ha un piano per uscire dalla sua situazione. Nel portarlo a termine si imbatte in Antonio, anziano malato e misterioso. Lo scontro tra i due, inevitabile e duro, porterà però a delle conseguenze del tutto inattese… [sinossi – TFF]

Fotogramma nero, assolvenza sonora da cui inizia a emergere un lontano e indistinto brusio di voci off. L’inizio di Sette opere di misericordia, del cinema (lungo) dei gemelli De Serio, è già una dichiarazione di poetica. Una sorta di manifesto estetico fondato sull’occlusione dello sguardo (o, forse meglio, sul vedere diversamente) e sulla rilevanza assegnata alla sonorità che sta sul fondo. Importante proprio perché indistinta, decisiva proprio in quanto ai margini. Un folgorante inizio che sembra rifarsi alla ricerca espressiva dell’ultimo Monteiro (Branca de Neve) – regista portoghese peraltro molto amato da Gianluca – e il cui merito più grande è forse quello di mettere da subito in guardia lo spettatore: attenzione, non ti trovi di fronte al solito film italiano.
Le vicende incrociate di Luminita (la sorprendente attrice rumena Olimpia Melinte), immigrata clandestina di origini moldave sfruttata da alcuni suoi connazionali, e di Antonio, l’anziano con un buco in gola e gravi problemi di salute cui dà vita Roberto Herlitzka (la cui interpretazione è stata tributata del premio Maria Adriana Prolo dal 29° Torino Film Festival), hanno infatti ben poco di italiano. Sono sì ambientate in una Torino livida e spettrale, ma potrebbero esserlo in una qualsiasi periferia di una grande città europea. Due vite ai margini costrette a incontrarsi, a riconoscersi, (forse) a salvarsi. Due esistenze offese raffigurate nella quotidiana lotta che intrattengono con il mondo, due traiettorie fuori pista colte nella flagranza del deragliamento, due corpi sofferenti il cui unico aspetto misericordioso sembra essere lo sguardo che li ritrae.

Nell’inusuale struttura a chiasmo del film è dunque già iscritto il suo senso recondito: l’incontro con l’Altro come possibilità, ma anche come (ultima) salvezza. Quella di Luminita e Antonio è dunque una rotta di collisione, un percorso incrociato che coincide solo nella parte centrale e che viene suddiviso in sette parti. Sette segmenti narrativi introdotti da altrettanti cartelli che richiamano esplicitamente le sette opere di misericordia corporale (doverosa in tal senso è la distinzione da quelle di “misericordia spirituale”). Più che alla tradizione cattolica, il richiamo è però di tipo iconografico e iconologico. Il riferimento infatti è a una delle tele più importanti della storia dell’arte, quella dipinta alla fine del 1606 da Caravaggio per il Pio Monte della Misericordia di Napoli. Iconografico in quanto la violenza chiaroscurale del naturalismo caravaggesco rivive nella scelta fotografiche (soprattutto degli interni) e attraverso citazioni più o meno esplicite (come quella dell’Incredulità di San Tommaso, che dà vita a una delle sequenze più intense del film). Iconologico in quanto il discorso di cui si fa portatore la tela caravaggesca, e cioè la perdita del fulcro drammatico dell’azione (che è tra l’altro uno dei motivi della nascita e dello sviluppo della pittura barocca, soprattutto nel Sud Italia), viene trasposto in chiave audiovisiva. La perdita del centro diventa l’occasione per concentrarsi sul contorno e sullo sfondo, sul percorso complessivo più che sull’evento centrale, sulle sue conseguenze più che sulla sua rappresentazione. Una precisa progettualità di sguardo che si delinea su più piani: a livello narrativo facendo un audace uso dell’ellissi (in particolare giocando proprio sull’elisione di eventi fondamentali), a livello spaziale incentrando la rappresentazione su un’ambientazione liminare (i luoghi in cui si svolge la vicenda sono tutti “ai margini”, della città e dell’esistenza: strade di periferia, un ospedale, una baraccopoli, una camera mortuaria, una casa di campagna adiacente all’autostrada), a livello enunciativo ricorrendo a movimenti di macchina che delineano l’interesse per immateriali linee di congiunzione, per la seducente astrattezza di spazi altrimenti esclusi dalla visione. Una delle cifre stilistiche ricorrenti è infatti la panoramica laterale che passa lentamente da un volto all’altro di un personaggio, percorrendone lo spazio che li divide molto lentamente e dando così grande rilievo allo sfondo sfocato, alle sue incorporee linee di fuga. Un progetto ambizioso e coerente che, una volta trovata la giusta prosodia, si rivela in tutta la sua stratificata complessità e che trova il suo giusto completamento nel lungo (oltre 4 minuti e mezzo) piano sequenza conclusivo. Probabilmente uno dei finali più belli del cinema italiano degli ultimi anni.

Sette opere di misericordia è insomma un’opera ostica, sicuramente eccentrica rispetto alla produzione italiana, capace di stordire e di sorprendere, soprattutto per la sua compattezza stilistica (è difficile infatti incontrare registi con tale consapevolezza dello stile già al film d’esordio). Un’opera di testa e di cuore, teorica e corporale, il cui discorso è contenuto interamente nella sua forma. La perdita del centro formale come riflesso della perdita di quella emotiva.
Guardare (e sentire) in modo diverso come ultima possibilità.

Info
Il trailer di Sette opere di misericordia.
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