American Hustle – L’apparenza inganna

American Hustle – L’apparenza inganna

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Un ineffabile truffatore, la moglie, l’amante, un generoso sindaco, un eccentrico agente dell’FBI. David O. Russell dirige un cast strepitoso: Christian Bale, Bradley Cooper, Jennifer Lawrence, Amy Adams e Jeremy Renner. Eccessivo, gigioneggiante, American Hustle riempie qualsiasi vuoto, imbelletta ogni singolo fotogramma, cerca di sviare il nostro sguardo, di sedurci con la sfacciata dicotomia vero/falso e i gli echi scorsesiani. L’industria hollywoodiana all’ennesima potenza, nel bene e nel male.

Don’t Leave Me This Way…

Il brillante truffatore Irving Rosenfeld e la sua seducente e scaltra complice Sydney Prosser sono costretti a lavorare per l’agente FBI Richie DiMaso. L’eccentrico DiMaso li introduce in un mondo di personaggi mafiosi del Jersey, un mondo pericoloso ma affascinante. In questo intricato intreccio tra crimine e legalità sono invischiati anche Carmine Polito, appassionato e irascibile uomo politico del New Jersey, e l’imprevedibile Rosalyn, vera e propria bomba a orologeria… [sinossi]
I can’t exist, I’ll surely miss your tender kiss
Don’t leave me this way, no
Don’t leave me this way, yeah
I’m a broken man with empty hands
Oh baby please, please, don’t leave me this way…
Harold Melvin & The Blue Notes – Don’t Leave Me This Way

Sembrano aver definitivamente conquistato Hollywood i personaggi borderline di David O. Russel, pronto a sbancare la notte degli Oscar. La traiettoria ascendente del regista e sceneggiatore newyorkese parte da lontano, parecchi anni prima di American Hustle – L’apparenza inganna, ancor prima del deludente I Heart Huckabees – Le strane coincidenze della vita (2004) o del più riuscito Three Kings (1999). Il cinema di Russel, in perenne bilico tra esigenze commerciali, slanci autoriali e suggestioni autobiografiche, si delineava già con l’esordio Spanking the Monkey (1994) e il successivo Amori e disastri (1996), pellicole un po’ sconquassate, abitate da personaggi eccentrici, spesso fuori controllo, divoratori bulimici di linearità narrative. Baciato dal successo con The Fighter, film su commissione che non fagocitava la poetica russelliana, e reso poi popolarissimo dalla romcom Il lato positivo – Silver Linings Playbook, Russell ha forse compiuto il passo definito con American Hustle, film oltremodo ambizioso che cerca di mettere in scena le complessità e le contraddizioni di un decennio accumulando vistosissime finzioni. Un’orgia di costumi, parrucche, celebri canzoni, travolgenti performance attoriali, inganni, tradimenti e crisi di nervi [1]. Tutto squisitamente oltre le righe, passionale, travolgente. Pure troppo.

Affidandosi ancora una volta ai talenti di Christian Bale, Bradley Cooper, Amy Adams e Jennifer Lawrence, già preziosi in The Fighter e Il lato positivo, e ritagliando un ruolo ad hoc per Jeremy Renner, Russell sembra plasmare American Hustle su suoi protagonisti, incorniciandoli religiosamente con la macchina da presa, esaltandone il fascino, enfatizzando i loro e i nostri turbamenti. In questo vortice di overacting, indubbiamente abbacinante ma assai rischioso, Russell sembra però imboccare traiettorie troppo programmatiche, scorciatoie calibrate sulle statuette dorate. Nel suo essere un affresco degli anni post-Watergate, con annessa perdita di innocenza, disillusione, smascheramento di un sistema profondamente corrotto e negazione dell’american dream, American Hustle gioca carte facili (dal tono caricaturale all’onnipresente colonna sonora, passando per la staffetta di voci narranti e il groviglio di flashback) per enfatizzare e al contempo giustificare le debordanti prove recitative: una scelta che ha ripagato su ogni fronte (premi, pubblico, critica), ma che ci lascia un retrogusto un po’ amaro, il dubbio di trovarci di fronte a delle scatole cinesi che contengono molto meno di quello che promettono. L’apparenza inganna…

American Hustle è Dicky Eklund che si getta continuamente dalla finestra (The Fighter), è un loop dell’esibizione ballerina di Pat e Tiffany (Il lato positivo), è il poliziotto Paul Harmon intrappolato in un trip infinito (Amori e disastri). American Hustle è un susseguirsi di picchi emotivi, di scene madri, di canzoni, di scollature vertiginose. È il parrucchino dell’antieroe Irving, è Delilah di Tom Jones, è l’inarrestabile Jennifer Lawrence, è il mutaforma Bale, è la febbre di un sabato sera che non finisce mai, è un triangolo amoroso con angoli che si aggiungono sequenza dopo sequenza, come se fosse una lunga dichiarazione d’amore di Russell ai suoi attori. Eccessivo, gigioneggiante, American Hustle riempie qualsiasi vuoto, imbelletta ogni singolo fotogramma, cerca di sviare il nostro sguardo, di sedurci con la sfacciata dicotomia vero/falso e i gli echi scorsesiani. L’industria hollywoodiana all’ennesima potenza, nel bene e nel male.

Note
1.
Tra i nomi che nobilitano la colona sonora di American Hustle, ideale playlist per risollevare il morale, citiamo quantomeno Duke Ellington (Jeep’s Blues), Frank Sinatra (The Coffee Song), Ella Fitzgerald (It’s De-Lovely), Harold Melvin & The Blue Notes (Don’t Leave Me This Way), Tom Jones (Delilah), David Bowie (The Jean Genie), i Led Zeppelin (Good Times, Bad Times) e, immancabili per una romantica immersione negli anni Settanta, i Bee Gees con How Can You Mend A Broken Heart
Info
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