Il pretore

Il pretore

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Tratto da un romanzo di Piero Chiara del 1973, Il pretore è una incolore trasposizione firmata da Giulio Base, che torna al cinema dopo la lunga parentesi televisiva.

Prima il piacere e poi il dovere

Augusto Vanghetta, pretore di una piccola provincia sul Lago Maggiore, è sposato con la giovane Evelina, ma da sette anni il loro matrimonio si è ridotto ad essere una formalità. Mentre Evelina si spegne ogni giorno di più, il Vanghetta coltiva le sue due grandi passioni: le donne e il teatro. [sinossi]

Secondo una regola mai scritta, ma che in meno di un secolo di tentativi ha fornito al pubblico e agli addetti ai lavori innumerevoli prove della sua veridicità, solo di rado da un grande romanzo è nato un film di uguale valore, capace di trasferire sullo schermo la potenza, lo spessore e persino le emozioni, riportate sulle pagine dallo scrittore di turno. Il Pretore, trasposizione del bestseller di Piero Chiara del 1973, “Il pretore di Cuvio”, purtroppo non è uno di questi rari casi. Ci sono penne come quella dello scrittore di Luino che, nonostante il dna cinematografico intrinseco rilevabile nelle storie e nei personaggi che questa ha generato, risultano difficilmente adattabili e trasferibili su un’altra espressione artistica e intellettuale che non sia l’origine letteraria dalla quale proviene. Non può e non deve essere stato un caso, infatti, che ci sia voluto un incessante lavoro ai fianchi degli eredi per ottenere i diritti di sfruttamento del romanzo che lo stesso autore aveva tentato invano di adattare e dirigere. Così come non può e non deve essere stato un caso che anche cineasti celebri e non (da Lattuada a Risi, da Massaro a Vicario, passando per Campanile e Nuzzi) abbiamo avuto precedentemente non pochi problemi nel confrontarsi con la scrittura e le opere di Chiara.

Tutto ciò non è servito però a desistere i produttori della Lime Film e Giulio Base, che dell’operazione firma la regia, a desistere da quella che per quanto ci riguarda rappresenta un’impervia montagna da scalare. Il risultato, come ampiamente prevedibile, è una prova incolore, un buco nell’acqua che non rende giustizia e non sfrutta al meglio quanto di straordinario il testo e il suo autore hanno lasciato in eredità ai lettori. La fedeltà assoluta alla matrice, fatta eccezione per qualche allontanamento dettato da esigenze drammaturgiche, ha finito con il pesare come un macigno sull’operazione, decretandone l’inevitabile schiacciamento. Il tentativo di trasferire gli intenti, la natura e le caratteristiche genetiche del libro sul grande schermo ha finito con il rivoltarsi contro chi si è illuso di poterlo fare. Una scelta che, invece di rendere omaggio a Chiara e a uno dei suoi testi più riusciti, sortisce purtroppo l’effetto contrario. Senza alcun dubbio, in questo come in altri innumerevoli progetti analoghi, il virare verso un libero adattamento o addirittura avventurarsi in un dichiarato e rischioso tradimento nei confronti dell’opera in questione sarebbero state le strade più sensate da percorrere.

Cantore della provincia nostrana, dei fatti e dei misfatti di anti-eroi ambigui dai molti scheletri nascosti nell’armadio, vittime e carnefici del vizio, del potere, delle malelingue, dei facili costumi e delle scappatoie, ne “Il pretore di Cuvio” Chiara dipinge un affresco miracolosamente in perenne equilibrio precario tra il dramma e la commedia. Camminando sospeso sul filo, lo scrittore lombardo racconta l’ascesa e la caduta di un grottesco e improbabile dongiovanni degli anni Trenta, prevaricatore sprovvisto di physique du rôle che abusa continuamente del proprio ruolo istituzionale per ottenere favori sessuali dalle donne del luogo, relegando la giovane moglie a cornuta della situazione, almeno fino all’entrata in scena del terzo incomodo. Il plot del romanzo è sostanzialmente riconducile al più tradizionale dei triangoli amorosi che coinvolge il lui, la lei e l’altro, ma che la scrittura di Chiara tramuta in una continua e irresistibile partita a scacchi tra i contendenti, in un valzer di cambi improvvisi di registro tra il serie e il faceto, l’umorismo e la tragedia umana.

Nell’ultima fatica dietro la macchina da presa di Giulio Base, nelle sale con Mediaplex in una cinquantina di copie a partire dal 3 aprile, gran parte di queste caratteristiche formali e drammaturgiche vengono meno. Il plot resta pressoché il medesimo, tranne un lavoro di sottrazione nel finale rispetto all’epilogo originale, ma quel perfetto gioco di transizione da un registro all’altro ne Il Pretore lascia spazio al randomico e zoppicante passaggio dalla farsa al melodramma. Storia e personaggi diventano di conseguenza gli agnelli sacrificali chiamati a pagare il prezzo più alto. Uno su tutti, il protagonista Vanghetta, costruito da Base e da Pannofino (ormai incapace di distaccarsi dall’immaginario di Boris) all’insegna della parodistica macchietta, che rimane sempre monocorde e fastidiosamente sopra le righe, tanto da farci rimpiangere i personaggi interpretati da Alvaro Vitali, Lino Banfi e Renzo Montagnani, nelle pruriginose pellicole di serie Z di fine anni Settanta e degli anni Ottanta.
E a dare il colpo di grazia all’operazione ci pensa lo stesso regista, la cui lunga parentesi televisiva ha finito con l’appiattirne la già altalenante, a nostro avviso, carriera cinematografica. Piatte e prive di guizzi degni di nota sono di riflesso tanto la messa in quadro quanto la messa in scena, palesemente piegati all’estetica televisiva da piccolo schermo e a certe soluzioni di artigianato fuori moda (la retro-proiezione usata per i camera-car), dove a dominare è il classico campo controcampo.

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