Il bigamo

Il bigamo

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Commedia “perfetta” dei nostri anni Cinquanta, Il bigamo di Luciano Emmer evita le sfumature platealmente socio-politiche in favore di una cristallina rilettura di meccanismi comici archetipici. Cast prestigioso e in grandissima forma, con uno strepitoso Vittorio De Sica. In dvd per Mustang e CG.

Mario De Santis, giovane e belloccio rappresentante commerciale, è sposato con prole, ma una sconosciuta romagnola giunge a Roma per accusarlo di averla sposata in precedenza e poi abbandonata. L’uomo finisce in carcere per reato di bigamia e ne nasce un caso enorme, che a poco a poco coinvolgerà un numero infinito di persone… [sinossi]

Il bigamo di Luciano Emmer è una delle varie apoteosi di un metodo, di un periodo storico-culturale e di una precisa idea di mestiere. Sembra di sminuire la portata autoriale di Emmer riportando il discorso su uno dei suoi film più noti e fortunati in tali coordinate, ma in realtà gli si fa un doppio complimento. Pochi altri, infatti, seppero interpretare come lui lo spirito e ancor più i bisogni cinematografici di una precisa epoca italiana, riallacciandosi a nobili fonti e collocandosi parallelamente in un originale crinale tra aderenza alla realtà e meccanismi narrativi “assoluti”. Autore di “neorealismo rosa” per eccellenza, in realtà Emmer è stato in altre occasioni anche un fine sperimentatore a cavallo tra avanguardia e nuove riletture (Domenica d’agosto, 1950, probabilmente il suo capolavoro, in cui il neorealismo e un originale sguardo collettivo-documentaristico accennano timidamente alle nascenti leggerezze anni Cinquanta). Ne Il bigamo (1955) prevale invece la pura industria, ma la “bella industria”, quella finemente cesellata da sceneggiatori e magistralmente interpretata da inarrivabili attori. Ovviamente il contesto socio-culturale è sempre quello dell’Italia postbellica in ricostruzione, in cui le novità fanno capolino per l’infastidita diffidenza di una società intimamente contadina. Così, nella Roma dei cantieri, sfreccia la surreale automobile di Mario De Santis, rappresentante commerciale di prodotti per l’igiene orale che si muove su una strana macchina a forma di doppio tubetto di dentifricio. L’entrata in scena del protagonista avviene proprio nella prima inquadratura in sella alla sua assurda autovettura, che attraversa la campagna adorna di palazzi in costruzione. E’ il primo (e più forte, quasi “unico”) elemento fortemente simbolico di tutto il film: Mario appartiene all’emergente borghesia rampante della nuova Italia democratica, dove le opportunità sono infinite e i nuovi mestieri abbondano. Un’ostentata modernità che mai come nel cinema italiano anni Cinquanta-Sessanta ha ottenuto squisiti e significativi effetti estetici nello scontro col recalcitrante ambiente circostante.
Gli elementi più fondanti di quell’Italia sono perfettamente riconfermati ne Il bigamo, aderendo a una sociosfera che spesso nel nostro cinema del tempo appare l’unica “narrabile”, possibile, esistente: la neo-borghesia rinata sul quieto familismo fascista, gli interni ben arredati da nuove cucine “americane”, donne attempate floride e rotonde (Ave Ninchi è la Venere di tale cinema), giovani sposine gradevoli e assennate. E uomini galli e confusi, donnaioli e brillanti, belli e desiderati. Così come appaiono sottili e per nulla didascaliche certe intelligenti notazioni socio-politiche, come la difficoltà di ottenere giustizia per un paradosso penale nelle giovani e neonate strutture repubblicane, o il nuovo orizzonte (questo sì chiaramente enfatizzato) di una società dell’immagine, dominata da paparazzi in cerca di scandali di bigamia o da nuovi cittadini che bramano di apparire fotografati sul giornale (più di uno dei personaggi finirà in bella posa davanti ai flash, fino all’ossessione nevrotica dell’avvocato Vittorio De Sica).

A ben vedere, La dolce vita di Fellini alligna in un’infinita serie di prodromi cinematografici, in piccoli sprazzi e brani secondari di altre opere. Segno evidente di una società in mutamento, che mostra tali trasformazioni per timidi cenni progressivi, tanto da poter tracciare una sorta di filologia felliniana ricercandone le tracce in molto cinema pregresso (La signora senza camelie di Antonioni è addirittura del 1953) fino alla piena e totale presa di coscienza dell’autore riminese.
Ma sarebbe fare un torto a Luciano Emmer voler ricondurre ad ogni costo la sua deliziosa commedia a un intenzionale discorso socio-metaforico sull’Italia del tempo. Quel contesto sociale è assunto e rievocato con pura e semplice adesione a una “realtà di fatto” (si racconta questa Italia, perché questa è l’Italia emergente), o se si vuole a un panorama narrativo comune a tutta una cinematografia d’epoca: in buona parte del cinema italiano di massa dell’epoca, fare cinema significa fare “questo” cinema, senza ulteriori implicazioni.
Prosciugando quindi Il bigamo da tali timidi segnali contingenti, ne resta un altissimo esempio di commedia “assoluta”, astratta, che affonda nelle nobili radici dei paradossi pirandelliani, e che per il resto rimette in scena con inarrivabile brillantezza meccanismi archetipici del riso, a cominciare dallo scambio di persona fino al più moderno slapstick. Altissima sartoria artigianale italiana, corroborata da uno stuolo di attori uno più in vena dell’altro: Marcello Mastroianni, Vittorio De Sica, Franca Valeri, Giovanna Ralli, Memmo Carotenuto (il migliore del mucchio), Marisa Merlini, Ave Ninchi, Salvo Randone, tutti chiamati a raccolta in un contesto di vero e proprio star system nazionale. Ad occuparsi di soggetto e sceneggiatura troviamo ancora il meglio dell’epoca: Sergio Amidei, Age&Scarpelli, con l’aggiunta di Francesco Rosi, per una manifestazione cristallica di commedia italiana anni Cinquanta.
Il Mario De Santis protagonista è un giovane rappresentante, sposato con prole, che una sera è convocato in questura perché un’altra donna, una panettiera romagnola decisamente bruttina, sostiene di aver già contratto matrimonio con l’uomo in precedenza. Accusato di bigamia, Mario cade dalle nuvole e nega recisamente di aver compiuto il reato, ma intanto entra ed esce dal carcere per infinite volte, mentre il caso monta in modo esponenziale seguendo un paradosso dopo l’altro, anche per via dell’ingerenza di un numero sempre maggiore di personaggi. Dopo un’appassionata quanto inutile arringa dell’avvocato difensore in tribunale, sarà l’ex-compagno di cella Quirino a scoprire la verità.

Come dicevamo, Emmer si limita a dare cenni della contingenza storico-sociale per sommi capi, ispirandosi forse a casi leggendari della storia penale italiana come l’enigma dello “smemorato di Collegno” (il dilemma Bruneri-Canella che appassionò l’opinione pubblica d’epoca fascista per molti anni), e si dedica anima e corpo a una ricontestualizzazione di archetipi narrativi, affidandosi a fantastiche prove attoriali e a ritmi comici vertiginosi. La brillantezza dei dialoghi e la loro rapidità sono l’evidente frutto di un enorme lavoro in fase di scrittura e d’incontro con gli attori, mentre lo spunto iniziale si attorciglia in un serpentone narrativo dalle mille imprevedibili svolte. Si avverte l’aria di nobilissime ascendenze letterarie, teatrali e cinematografiche: i tormentosi paradossi e le imprendibili verità di Pirandello, i cristallini meccanismi della commedia di Marivaux, e non ultimo il cinema slapstick americano. Ne è prova una delle sequenze più belle, posta più o meno al centro del racconto: il tipico affollarsi nell’appartamento di Mario di tutti i personaggi uno dopo l’altro, compressi dentro spazi angusti per una catena infinita di equivoci e coincidenze, con annesse porte che si aprono e si chiudono per nascondere o rivelare i personaggi. Mentre la scaltrezza produttiva è ravvisabile nel riservare a Vittorio De Sica un personaggio secondario che cresce poi verso un magistrale assolo istrionico nella sequenza in prefinale dell’arringa in aula, dove la creatura più nota del De Sica più attempato (il cialtrone vanaglorioso, dal linguaggio forbito e compiaciuto) trova una delle sue manifestazioni più eccessive, manierate e indimenticabili. Un quarto d’ora di magistero attoriale, davanti al quale è ardua sfida per chiunque trattenere le risate per più di un secondo. Se Mastroianni appare ancora acerbo e si limita a fare il “bello confuso”, altrettanto esilarante è la caratterizzazione di Franca Valeri, secondo un’antica e nobile idea della macchietta regionale di gustosissimi accenti.

E’ facile immaginare che Il bigamo fosse insomma il prodotto perfetto per il pubblico del tempo, desideroso di dimenticare in fretta gli orrori della guerra e di credere all’ottimismo della ricostruzione. Ci si guardava intorno e si vedevano sorgere nuovi edifici ovunque, nascevano nuovi profili antropologici, e le istituzioni del Paese ce la mettevano tutta per raccontare (e raccontarsi) un’Italia migliore. Il bigamo, come mille altre opere e operine del tempo, sembra voler partecipare a questa festa forzata, ma tramite una competente rilettura della commedia classica, in cui la maschera, più volte rasentata nei caratteri (De Sica è una sorta di moderno Balanzone), è riscattata dal suo inserimento in un oliatissimo meccanismo di azione/reazione, paradosso/realtà, apparire/essere. Altrettanto fertile è infatti il gioco intorno alle apparenze, che apre scenari metafisici e perturbanti, così come accadeva negli illustri modelli citati più sopra. Ma, ribadiamo, esiste anche un cinema che sanamente vuol essere solo ciò che è. Serio, professionale, altamente confezionato, una macchina per ridere non volgare né banale, elegantissimo nella direzione degli attori e nella costruzione narrativa, capace di cesellare finemente anche i personaggi secondari (Memmo Carotenuto si meritò il Nastro d’Argento al miglior attore non protagonista). Alla critica del tempo poteva sembrare poca cosa. Rivisto oggi, è merce rara e preziosa.

Extra
Assenti.
Info
La scheda de Il bigamo sul sito di CG Home Video.
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