La grande scommessa

La grande scommessa

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La grande scommessa rilegge la recente storia statunitense – e il crollo della finanza interna e mondiale – attraverso un divertente racconto corale. Un riassunto sui generis di una catastrofe economica e umana di cui ancora si pagano le conseguenze.

Il peso dell’immobile

Chi sono Michael Burry, Jared Vennett, Mark Baum, Ben Rickert? I nomi potranno non dirvi nulla, ma si tratta delle persone che, per prime, intuirono il collasso del sistema finanziario statunitense, partendo dalla fragilità del sistema dei mutui… [sinossi]

Vivere in una bolla. Questo il destino, con ogni probabilità, di un sistema occidentale sempre più ritorto su se stesso, abbarbicato al capitalismo selvaggio. Quando la bolla immobiliare esplose, poco meno di dieci anni fa, i cittadini di mezzo mondo furono edotti su un buon numero di termini con i quali solo in pochi avevano dimestichezza. Si iniziò a discutere di quella che veniva descritta come “finanza creativa”, e circolarono parole dal significato oscuro. Una su tutte? Subprime . Quindi, mentre la crisi economica si spandeva come una macchia d’olio, i governi occidentali (spronati dagli organismi della finanza mondiale) decisero che era meglio confondere le acque, e concentrare l’attenzione dei contribuenti su qualche altro dettaglio. È un fatto che, fatta eccezione per determinati filosofi ed economisti (un nome per tutti, Thomas Piketty), la crisi economica sia stata trattata alla stregua di un tifone. Una calamità naturale, ineluttabile e pronta sempre a ripresentarsi all’insaputa di tutti.

Il cinema, qua e là, ha cercato di dare un senso “estetico” a questa crisi, preferendo però spesso gli effetti alle cause. Dopotutto è più d’impatto sullo schermo un uomo che ha perso tutto rispetto a quelli che muovono i fili. O che almeno li vedono, quei fili.
Anche per questo, quando al Berlinale Palast venne presentato alla stampa Margin Call di J.C. Chandor, in molti scattarono in piedi ad applaudire gridando al “miracolo”.
In realtà il film di Chandor, oggi come allora, ha ben poco di miracoloso. Certo, affronta l’apparente tabù di petto, ma lo fa con uno stile raggelante, quasi mortuario; organizza il funerale del sistema senza capire che a morire sarà chiunque, eccezion fatta per il sistema. Allo stesso tempo pone un dilemma morale fra i personaggi, spingendo lo spettatore a credere a un agone in corso, a Wall Street e dintorni, tra “buoni” e “cattivi”.

Austerità e morale, due concetti del tutto estranei al mondo della finanza, che fa dell’ipertensione il suo unico credo. Due concetti spazzati via a inizio 2014 da Martin Scorsese in The Wolf of Wall Street, biografia del truffaldino Jordan Belfort che è anche anfetaminico viaggio nelle dorate paludi dell’alta finanza. È da questo esempio che parte Adam McKay per raccontare le radici della crisi del 2007. Un montaggio scomposto e ipercinetico, dialoghi che se ne vanno a zonzo per strade asfaltate di adrenalina, personaggi che se li si incontrasse in giro si cambierebbe marciapiede seduta stante. Tolta la filiazione scorsesiana – è difficile immaginare un film come La grande scommessa senza che la mente volteggi verso i volti di Leonardo DiCaprio e Jonah Hill –, il nodo della questione lo si rintraccia già nel curriculum del regista. McKay è uno dei nomi fondamentali della commedia contemporanea statunitense, e come molti dei suoi colleghi (Seth Rogen, Evan Goldberg, Greg Mottola, Nicholas Stoller e Jason Segel) deve gran parte del suo successo a Judd Apatow, fondatore di una vera e propria factory a Hollywood. È stato Apatow a produrre alcuni dei titoli che hanno permesso a McKay di farsi un nome, come Anchorman – La leggenda di Ron Burgundy, Ricky Bobby – La storia di un uomo che sapeva contare fino a uno e Fratellastri a 40 anni.
Scorrendo la filmografia di McKay si corre il rischio di rimanere sorpresi (per non dire stupefatti) nell’approdare a La grande scommessa, ma si tratta solo di un abbaglio. Per quanto non ci sia alcun tentativo, da parte di McKay (autore anche della sceneggiatura in combutta con Charles Randolph, già al lavoro su The Life of David Gale di Alan Parker, The Interpreter di Sydney Pollack e Amore & altri rimedi di Edward Zwick) di semplificare la questione politica, o di annacquare l’analisi sociale, La grande scommessa si propone al pubblico come una commedia scoppiettante, dal ritmo indiavolato. I personaggi si rinfacciano gli uni con gli altri battute salaci, in un battibecco continuo ed esasperato che ha l’effetto di stordire scientemente lo spettatore; come se si trovasse su una montagna russa, questo deve infatti vivere il saliscendi di una storia recente che potrebbe essere scambiata per fantascienza, se solo non fosse accaduta solo un pugno di anni fa, nella nazione più potente del globo.

Mentre la bolla immobiliare si sgonfia, la narrazione de La grande scommessa si satura fino alle estreme conseguenze. Esplode, deflagra come la crisi economica. Esplode in faccia allo spettatore, senza concedergli alcuna precauzione; dopotutto la finanza non ritenne opportuno lanciare alcun salvagente agli investitori e ai contribuenti. In una sarabanda infernale, McKay non dimentica di avere tra le mani una storia tragica, che ha lasciato sul lastrico milioni di persone, prima negli Stati Uniti e nei mesi successivi nel resto del mondo. E cosa fa? Educa. Spiega. Attraverso l’apparizione di personaggi noti del mondo dello spettacolo (Selena Gomez, Anthony Bourdain, Richard Thaler, una Margot Robbie presa in prestito proprio da The Wolf of Wall Street) che donano finalmente un senso a termini che sono stati creati e utilizzati proprio allo scopo di confondere il popolo, convincendolo di non poter capire una materia che solo alcuni specializzati addetti ai lavori era in grado di maneggiare.

In molti hanno criticato La grande scommessa proprio per la sua scelta di entrare nel dettaglio, di lanciarsi in monologhi atti solo ed esclusivamente a spiegare ciò che successe; ma si tratta di una decisione inevitabile, e che crea un contrasto affascinante con una messa in scena iperattiva, fuori controllo, in cui trame e sottotrame si intersecano fino a contorcersi in maniera quasi mostruosa. McKay non ha timore di puntare il dito, ma ha l’accortezza di farlo non contro un personaggio o un altro, ma contro il sistema. Quel sistema che è sopravvissuto senza perdite sanguinose e continua a lucrare sulla crisi. Quel sistema che si rafforza nella crisi. Quel sistema di cui fanno parte anche i protagonisti de La grande scommessa, e che alcuni di loro criticano apertamente senza abbandonarlo mai – il Mark Baum interpretato da Steve Carell. Tutto rimane sempre identico a sé, solo il popolo viene mandato al macello, senza troppi sensi di colpa. Per niente assolutorio, La grande scommessa è un pugno allo stomaco assestato con il sorriso sulle labbra e una parlantina fuori dal comune. Per questo, forse, fa così male.

Info
Il trailer de La grande scommessa.
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